Grande maestro del cinema italiano, 84 anni, Pupi Avati è in forma e non si lascia scappare l’occasione di parlare a briglia sciolta durante l’incontro a Milano, per ricevere il Premio alla Carriera 2023 conferitogli dalla Società Dante Alighieri-Comitato di Milano, in collaborazione con la Presidenza del Consiglio Comunale di Milano. Si è raccontato a cuore aperto, una lunga catena di emozioni, ricordi, in cui esperienze personali e professionali si intrecciano in una trama avvincente (“ormai finisco per confondere vita e cinema: quando parlo con mia moglie mi chiedo come inquadrarla”). «Quando sento tutti questi bei discorsi su di me ho come la sensazione che si parli di qualcun altro e che non sia più io. So benissimo che avrei potuto fare meglio, di essere stato inadempiente. Sono un eterno timido e insoddisfatto».
Per quale ragione ha fatto il film “Dante”, uscito nel 2022?
“Perché ci manca il sublime, il sacro nel modo di guardare le cose, oggi manca questa ambizione. È il concretizzarsi di un progetto coltivato a lungo e pieno di traversie. Più lo proponevo, più i committenti si rivelavano spaventati dalla figura di Dante Alighieri. Ho fatto questo film perché la gente si affezioni e voglia bene a Dante, conoscono magari la Divina Commedia, ma della sua vicenda umana che si fonda sul dolore non sanno nulla. Emilio Pasquini, emerito dantista tra i consulenti del film purtroppo venuto a mancare a fine sceneggiatura, insisteva tanto: “Mi raccomando Pupi, racconta quanto l’esilio l’avesse umiliato”. A me stava a cuore togliergli di dosso la polvere dell’Accademia, andando oltre la sua monumentalità come poeta, il Sommo Poeta. Sono entrato nella vulnerabilità e nella fragilità di Dante come persona. Ha vissuto in condizioni economiche disastrose, con una condanna al rogo e alla decapitazione. Eppure, nonostante tutto, non ha mai smesso di sognare il rientro a Firenze.
Cosa l’affascina di più?
“L’amore per Beatrice. Dante era un bimbo di 9 anni quando s’innamorò di Beatrice. Solo dopo 9 anni si rivedono. Vestita di bianco, Beatrice passeggia con due donne più adulte, lei finalmente si gira e lui rimane tramortito dalla gioia. Gli sorride, gli sorride! E pronuncia solo queste parole: “Vi saluto”. Il loro dialogo è tutto qui. Tutto è racchiuso in un pudico saluto. Questo rapporto fatto solo di sguardi e di attese, del giovane Dante che segue Beatrice per le vie di Firenze, la spia, la pedina, la contempla e la sogna, senza mai neppure sfiorarla è un innamoramento simile a quello che ho vissuto personalmente. Mi consumavo in corteggiamenti che non portavano a nulla se non a qualche vago cenno di saluto».
Il primo approccio con i versi danteschi?
«Da bambino mia zia Rina aveva un enorme testo in pelle illustrato de “L’Inferno”, me lo lasciava in cucina squadernato sul tavolo e io con la lente d’ingrandimento andavo a cercare le donne nude. Poi la scuola me l’ha fatto odiare».
Il suo ultimo nuovo film, si intitola La quattordicesima domenica del tempo ordinario (con Gabriele Lavia, Edwige Fenech). Racconta con stile inconfondibile la storia di due amici, un grande amore, l’illusione del successo. Il curioso titolo, racconta Avati, evoca il giorno del 1964 in cui sposò Amelia Turri (chiamata da tutti Nicola Turri), la donna della sua vita. “Mi sono sposato, il 27 giugno 1964. Un giorno molto speciale «con la felicità più piena, dopo quattro anni di rincorsa dantesca ho conquistato quella che per me era la ragazza più bella di Bologna. Credo mi abbia sposato per sfinimento. Non ero ancora diventato regista».
Il primo bacio a sua moglie?
«L’ho rubato. Una sera, ebbi modo di riaccompagnarla a casa. Lei sta raggiungendo il cancello quando le dico: fermati, gIl primo bacio a sua moglie?uarda questo! Era l’orologio di mio padre che portavo al polso. Lei interdetta lo guarda e io aggiungo: mancano 5 minuti alla mezzanotte del 18 settembre, che è il mio compleanno (Pupi è nato il 3 novembre,ndr) ma finora nessuno mi ha fatto gli auguri. Nemmeno un bacio. Avviene così il nostro primo bacio, e 9 mesi dopo il matrimonio (dal quale sono nati 3 figli: Mariantonia nel 1966, Tommaso nel 1969 e Alvise nel 1971,ndr)».
Voleva suonare come Lucio Dalla
Il sogno di Pupi Avati era, racconta, diventare un grande clarinettista jazz. E di battere Lucio Dalla che diventò suo grande amico anche se contribuì, una volta entrato nel gruppo (la Doctor Dixie Band) con il clarinetto, a infrangere le speranze del futuro regista. «Suonavamo nelle cantine. Tutte le sere mi ritrovavo a essere il peggiore, e non era esaltante. Deporre il clarinetto nell’astuccio credo, però, che sia stato un gesto di grande consapevolezza, ma anche il sommo dolore della mia vita. Lucio aveva in sé qualcosa di misterioso e sacrale, la sua era un’intelligenza speciale, capiva di tutto, quando vedeva i miei film scopriva cose che io stesso non sapevo di averci messo. Per tutta la mia vita, ho desiderato essere Lucio».
Dirige il suo primo film nel 1968: “Balsamus, l’uomo di Satana”. Come nasce la passione per il cinema?
«Trentacinque anni fa entrai in un cinema di Bologna e vidi il capolavoro di Federico fellini, 8 e ½ . Uscito dalla sala, entusiasta, scrissi sulla carta intestata della “Findus” – di cui ero il direttore di zona – una lettera a Fellini. Avevo capito che quello doveva essere il mio mestiere. Ho continuato a scrivergli per 20 anni senza ottenere mai una risposta. Poi mi trasferii a Roma con i miei, vicino a via Margutta. E scoprii che mi abitava accanto. Presi tutti i giorni, per mesi, a camminare sull’altro marciapiede, seguendolo, fino al bar Canova di Piazza del Popolo. Poi, un giorno, decisi di attraversare la strada: “Sono Pupi”, gli dissi. E lui rispose: “Pupone!” abbracciandomi e stringendomi come fosse stato lui a cercarmi per anni!».
Si sente ancora un outsider?
«Difficile trovare un regista più alternativo di me: non sono mai stato di moda. Il protagonista del mio film precedente “Lei mi parla ancora” è un comico ottantenne che non aveva mai fatto un film drammatico (Renato Pozzetto, ndr). Scommetto sulle storie, punto sulle emozioni, su quello che mi commuove e che mi sembra bello. È un impegno che assumo con me stesso. A volte ci riesco, altre meno».
La cosa più bella che ha fatto nella vita?
«Tornare a casa. Tornare da lei, mia moglie. Quando da venditore di surgelati sono passato al ruolo di regista cinematografico tutto è cambiato: all’improvviso ero diventato affascinante e seducente. Una ubriacatura che si è tradotta in un periodo di separazione da mia moglie a causa della quale ho sofferto come mai in vita mia».
Un suo difetto?
«Sono geloso. La mia è una forma di gelosia e possessività che ha procurato sofferenza, di questo sono consapevole, anche se trovo difficile liberarmene. In realtà sono sempre vissuto nel perenne timore dell’abbandono».
Come vive la vecchiaia?
«Ho un fisico fuori sincrono, i contadini lo chiamano “scavallamento”: è il momento in cui il fisico non ti rappresenta più e tutto quello che ti era facile diventa complicato. Però intellettualmente, spiritualmente e mentalmente non mi sento per niente quel vecchio che appaio se mi guardo allo specchio. Semmai assomiglio sempre di più al bambino che sono stato. Entrare nella vecchiaia quando arriva la nostalgia non della giovinezza ma dell’infanzia. E ti dà veramente la sensazione che tu stai lentamente e progressivamente assomigliando sempre di più a quel bambino che fosti tanti anni fa. In questo momento della mia vita riemergono tante cose del mio passato con un nitore sorprendente. Non sono stato un gran padre, però quando li incontro, li sento molto vicini. Sapete perché i vecchi e i bambini si percepiscono così tanto, così bene? Perche sono entrambi molto vulnnerabili. Essere fragili è una preziosa qualità della vita, ti priva di tutti gli anticorpi, di tutte le diffidenze, di tutte le corazze che ti sei costruito e quindi ti avvicina agli altri. Con la vecchiaia, torni ad avere voglia di mamma e papà, ad avere nostalgia dell’essere figlio. Il mio sogno ricorrente più bello sa qual è? Ritornare nella cucina della mia vecchia casa di via San Vitale 51 a Bologna. Ci sono i miei genitori che aspettano me ragazzino che rientro a casa e mentre gli rendicontavo la giornata mi sentivo veramente felice».
Il rapporto con sua mamma è stato molto forte
«Si chiamava Ines, figlia di un operaio socialista e di una contadina. Abbiamo avuto un rapporto patologico di affettività e riconoscente complicità. Mi ha insegnato ad avere sogni ambiziosi, a realizzare quello che lei non ha realizzato. A volte la vado a trovare nella chiesa di San Giacomo in via del Corso a Roma, mi metto nella stessa panca di mia madre per replicare una consuetudine e dare fondamento ai suoi convincimenti e alla sua visione delle cose?»
Lei prega?
«Facevo il chierichetto una chiesetta dell’Emilia. Prego Dio di esistere. Per favore esisti, perché sei necessario perché sarebbe bellissimo se tu ci fossi».
Sua padre?
«Era un bell’uomo, coi baffi e gli occhi chiari, elegante, simpatico. Faceva ridere le donne e ingelosire mia madre. Il nonno Avati era un noto antiquario di Bologna, presso il quale la giovane Ines faceva la dattilografa. Come da copione mia madre si innamorò del bel rampollo e si mise in testa di conquistarlo. Papà morì ancora giovane in un ’incidente stradale, quando avevo 12 anni».
Ci pensa alla morte?
«Ho 84 anni e non sono allegrissimo, perché sento i titoli di coda arrivare. Se penso alla morte, quello che mi tormenta è il dolore che tu sai che recherai agli altri nell’andartene. La morte in realtà non ti riguarda mai personalmente, ma riguarda quelli che rimangono, è il dolore di chi rimane. È una cosa che io vorrei risparmiare ai miei cari. Ed è per questo che la morte la sto blandendo parlandone in continuazione. Mi impegno in un futuro che statisticamente non potrei vivere. Alla mia età, dovrei iniziare a ragionare in termini più brevi ma, al contrario, sto progettando cose che mi dovrebbero far vivere per anni e anni. lo ammetto ma da ragazzo la mia sconsideratezza è arrivata a dei livelli imperdonabili. Ora vorrei andarmene riappacificato con questo mondo, un po’ come quando da bambino giocavo nei cortili e, quando scendeva il buio, sentivo di voler fare la pace con chi avevo bisticciato quando c’era la luce».