«Quando il cielo baciò la terra, nacque Maria», sono le prime parole pronunciate, nel crepuscolo di fine giugno da Arianna Scommegna, attrice talentuosa (Premio Ubu 2014, nata a Milano nel 1973), applauditissima, vibrante interprete del “Magnificat” di Alda Merini, affiancata sulla scena da Giulia Bertasi, alla fisarmonica (nella foto in alto). Arianna Scommegna riempie il testo della grande poetessa milanese di una straordinaria quantità di echi, timbri ed emozioni nelle vesti di una Maria adolescente, quasi bambina, infine Mater Dolorosa, sotto la Croce avvolta da un velo blu che le copre il capo e le spalle, come la Madonna di Antonello da Messina.
Lo spettacolo (adattamento di Gabriele Allevi, regia Paolo Bignamini, produzione Teatro de Gli Incamminati e Atir, patrocinio del Municipio 5) è andato in scena nel suggestivo cortile della chiesa di Santa Maria della fonte, nel parco Chiesa Rossa, nell’ambito del Festival “La prima stella della sera”.
Bentornata Arianna al Municipio 5!
«Per noi la rassegna è diventata un appuntamento importantissimo per ritrovarci in questo territorio che amiamo e non abbiamo mai abbandonato nonostante la chiusura del Teatro Ringhiera e dove, attraverso spettacoli e laboratori, continuiamo a esserci».
Hai portato in scena il Magnificat per la prima volta nel 2006, proprio al Ringhiera. Che emozione hai provato adesso?
«È pur sempre una prima volta anche per me. Nessuno spettacolo esiste da solo, è il risultato anche del posto che lo ospita e del pubblico presente. Il cortile della Chiesa Rossa dei frati Cappuccini con l’abside a mattoni a vista, le strette finestrelle a tutto sesto, sono una cornice speciale. L’emozione grandissima è stata ritrovare un respiro di pace e di restituirlo al pubblico. Poter pronunciare e ascoltare le parole della Merini fa bene al cuore».
C’è l’identificazione della Merini con Maria e poi la tua, sembri rapita…
«Il Magnificat è un’opera di grande forza visionaria, trabocca di una carica poetica inaudita, trasuda di una densa, religiosa carnalità. La responsabilità di abitare la parola incandescente della grande poetessa, significa sostenere, anche fisicamente, con la fatica del corpo, la sua monumentale bellezza».
Come ti sei avvicinata al testo?
«La Maria di Merini è una creatura di luce, di carne, smarrita e perdutamente innamorata di Dio. Potrebbe sembrare un testo religioso; in realtà, il punto di vista che gli abbiamo conferito è molto umano. Riguarda qualsiasi atto di creazione in tutte le sue espressioni. Magnificat è tutte le volte che l’uomo ha una chiamata all’atto creativo e di dono. Non è prerogativa unica degli artisti, tutti abbiamo la capacità di partorire qualcosa che si stacca da noi e va nel mondo come figlio. In questo momento storico, il Covid, gli echi di guerra e di distruzione, i morti nel Mediterraneo, credo che sentiamo tutti il bisogno di una creazione buona, positiva, e gettare semi su questa terra. A volte ci vuole uno sforzo di immaginazione quasi sovrumano. Ma proprio nei momenti critici si possono scatenare energie creative».
Impegnatissima quest’ anno, ti avevo già seguita ed ammirata in numerosi spettacoli molto diversi l’uno dall’altro, sia per genere che per argomento, in diversi teatri milanesi, dal centro alla periferia: Le Supplici al teatro Carcano, Antigone al Litta, Il buio oltre la siepe a LaBarca, Utoya alla Teatro Cooperative, La citta di M. al Gerolamo.
«Il teatro è la mia casa, la mia vita! Ovunque sia. In effetti, dopo la chiusura forzata del Ringhiera per “lavori di messa in sicurezza” la compagnia è senza fissa dimora. Sono davvero “vagabonda, maglione sulle spalle, nella notte blu”, come cantava papà (il celebre cantautore pugliese Nicola di Bari, all’anagrafe di Michela Scommegna, vincitore di due Festival di San Remo negli anni 70, NdR) . Credo sia orgoglioso di quello che faccio».
Arianna e il teatro: che storia è?
«Una storia senza fine. Sento di essere nata per il teatro. Ed è stato un vero regalo averlo intuito fin da bambina, all’asilo. Partecipavo a tutti gli eventi possibili e immaginabili organizzati dalla Parrocchia di Cologno Monzese, dove sono nata. I miei genitori si chiedevano da dove mi arrivasse questa passione, e me lo sono chiesta anch’io molte volte, diventata adulta. Ecco, il senso più vero e significativo dell’avventura in scena è in fondo quello di accedere all’inesauribile ricchezza dell’essere umano. Recitare ti dà la possibilità di essere altro, come quando da bambini si dice “facciamo che io ero…”. Di sperimentarsi e al tempo stesso di scoprire o approfondire la conoscenza di una parte del proprio Io. Di liberare il linguaggio del corpo, il suono della voce. Dopotutto, sono figlia di un cantante (il celebre cantautore pugliese Nicola di Bari, all’anagrafe Michele Scommegna, vincitore di due Festival di San Remo negli anni ‘70 – NdR) e so quanto la voce sia importante. Il teatro è corpo, dare corpo e voce alle parole».
Un angolo del quartiere a cui sei particolarmente legata?
«La Piana, un’area pedonale sopraelevata, dietro la Chiesa S. Antonio Maria Zaccaria. Davanti al Teatro Ringhiera. Quando Atir nel 2007 prende in gestione il Teatro Ringhiera, in via Boifava, la Piana è una terra di nessuno, un non-luogo di malessere, disabitata o male abitata. Fabio Chiesa, attore e socio Atir, inizia a dipingere fiori fra le crepe dell’asfalto con i bambini del quartiere. Intravede in questo gioco una possibile inversione di tendenza. Alla morte di Fabio, in bicicletta sulle strade di Milano, nel 2010 la compagnia Atir decide di completare il suo sogno, coinvolgendo periodicamente i cittadini del quartiere nella creazione di un grande prato di fiori dipinti sul piazzale. Nel 2012 alla terra di nessuno viene dato un nome: l’amministrazione Pisapia intitola il piazzale a Fabio Chiesa».
Non è solo “spettacolo”, cos’è il teatro per il quartiere?
«Quel posto è la dimostrazione concreta della funzione del teatro come luogo di incontro e aggregazione. Noi non siamo più lì, ma la gente del quartiere continua a occuparsi della Piana. È nato il gruppo della “Pianiste”, che presidiano il territorio, si inventano cose per tenere lontano il degrado. Per noi il pubblico non è mai massa, al contrario è coro. Non subisce ma è autore. Il 2 giugno ogni anno celebriamo la festa della Repubblica di Fabio, con performance, laboratori per bambini, dj-set. Per ricordare al quartiere e alla città che non abbandoniamo il Teatro Ringhiera e piazza Fabio Chiesa. Il nostro impegno è da sempre stato quello di portare la cultura di “qualità” in periferia, consci che in una grande metropoli i confini tra centro e periferia non sono e non devono essere trincee. “Centro” è ovunque pulsi la vita, in ogni sua declinazione».
Esprimi un desiderio.
«La riapertura del Ringhiera, il nostro teatro chiuso dal 2017. Un desiderio a lunga scadenza, lo so, ma so che prima o poi succederà. La macchina burocratica è partita, molto lenta ma è in moto. Il Municipio 5 si sta battendo. La volontà politica c’è. Crediamo che il Ringhiera vada difeso “a prescindere”. Questo significa che non è detto che saremo noi ad ottenere l’assegnazione del teatro. Ma il teatro deve riaprire e continuare ad essere un baluardo, un presidio di “bellezza” a disposizione del quartiere e della città».