Un evento non per parlare di Pasolini, ma per sentir parlare Pasolini. Intervista a Mino Manni, attore e regista piacentino, sul suo spettacolo nato sugli scritti del poeta senza intromissioni, commenti o fraintendimenti
Una serata davvero speciale dedicata a Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975), poeta, drammaturgo, regista, scrittore, ha chiuso l’estate milanese nel suggestivo palcoscenico open air di “Menotti in Sormani”. Un reading con musica dove la parola del più scomodo intellettuale italiano del dopoguerra, arriva intensa, forte e necessaria. Partendo dal titolo scelto per lo spettacolo, “Tutto il mio folle amore lo soffia il cielo”, un verso di struggente bellezza estrapolato da una celebre canzone scritta da Pier Paolo Pasolini e interpretata da Domenico Modugno per il film Che cosa sono le nuvole. Sul palco, sotto un cielo minaccioso di temporale, l’attore e regista piacentino (ancorché direttore artistico del Teatro Verdi di Fiorenzuola) Mino Manni, 54 anni, accompagnato da due musiciste – Silvia Mangiarotti (violino) e Francesca Ruffilli (violoncello) e dalla giovane cantante Elisa Del Corso. Un evento non per parlare di Pasolini, ma per sentir parlare Pasolini. Manni si affida a pochi oggetti e a una voce profonda e ferma che persegue solo la necessità della parola poetica, nessun altro abbaglio. La parola non è declamata né enfatizzata, ma posta al centro della scena, non come esercizio di stile o eco letteraria, ma per la potente carica evocativa che impone all’attore una grande concentrazione, sottraendogli la facile presa sul pubblico con la mimica e la gestualità, richiedendo piuttosto attenzione al fluire ritmico. Così come Pasolini rivendicava nel suo Manifesto per un teatro per un nuovo teatro uscito in pieno 1968 “la scomparsa quasi totale della messinscena, tutto ridotto all’essenziale”. Dando prova di presenza e tensione fisica straordinariamente espressiva, Manni riesce a raccontare Pasolini con castissima intimità e rispetto. E sembra perseguire proprio quell’intento che Pasolini auspicava “l’attore del Teatro di Parola dovrà fondare la sua abilità sulla capacità di comprendere veramente il testo e divenire così un ‘veicolo vivente del testo’”.
Musica e parole si alternano, si intrecciano e si mescolano (“Vorrei essere scrittore di musica”, diceva Pasolini). Il primo brano cantato dalla brava Elisa Dal Corso è Febbraio. Una delle prime poesie friulane: “Senza foglie era l’aria, canali pianelli, gelsi. Si vedevano lontani i borghi sotto i chiari monti. Stanco di giocare, sull’erba, nei giorni di Febbraio, mi sedevo qui, bagnato dal gelo dell’aria verde“. Seguita da Cristo al Mandrione (“Gesu Cristo guardeme tutta zozza de pianto abbi pieta’ de me, io che nun so gnente”), una delle canzoni in dialetto romanesco scritte da Pasolini per Laura Betti (con la musica di Piero Piccioni). Con il chitarrista Mattia Signaroldi si cimenta con una serie di arie amate da Maria Callas: Aria dal Rigoletto opera che Pasolini con Ninetto Davoli era andato a sentire negli anni Sessanta alle Terme di Caracalla. Anche Il titolo dello spettacolo riprende il verso di una celebre canzone scritta da Pasolini per il film Che cosa sono le nuvole, estrapolando una serie di parole o piccole frasi dell’Otello di Shakespeare e poi unificando il tutto (1968). Poco più di venti minuti densi di poesia. Insieme a Totò, Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Adriana Asti, Laura Betti compare anche Domenico Modugno nei panni di un monnezzaro che a bordo del suo camioncino trasporta in discarica uno stock di rifiuti fra cui due marionette, quella di Jago (Totò) e quella di Otello (Ninetto Davoli) dove i due scopriranno per la prima volta il cielo e le nuvole. Nel guidare, Modugno canta con il suo magnifico afflato tutto il suo folle amore perduto, uno struggimento lirico irresistibile.
Davvero difficile ripercorrere la “scaletta” dello spettacolo. Mi limito a menzionare velocemente quelle che possono essere considerati momenti chiave della vita di Pasolini: il rapporto conflittuale con il padre ufficiale di fanteria, violento e tirannico, l’amore assoluto per la madre Susanna, maestra (“il tuo amore è la mia schiavitù), gli anni della giovinezza friulana trascorsi a Casarsa in Friuli, “un paese di temporali e di primule”, luogo d’origine della madre dove Pasolini trascorre alcuni anni della sua infanzia e le vacanze estive, e dove si stabilisce dal 1943 al 1950 insieme con la madre e il fratello Guido (a soli diciannove anni ucciso da partigiano da altri partigiani sloveni dopo l’eccidio di Porzûs). Lo scandalo della omosessualità a Ramuscello (vicino a Casarsa) da cui si origina il primo processo per atti osceni in luogo pubblico e per corruzione di minorenni, il conseguente allontanamento dall’insegnamento (era professore nella scuola media statale di Valvasone) e l’espulsione dal PCI per indegnità morale. La fuga con la madre a Roma. L’eros disperato e vitale per i ragazzi che vivono nelle borgate. Le poesie che Pasolini dedicò a Maria Callas inserite nella raccolta “Transumanar e organizzar“, ma ben pochi percepirono a chi fossero indirizzate (la Divina non viene mai chiamata per nome). “Nel tuo sguardo mi incanto, nei tuoi occhi mi perdo, tra le tue braccia rinvengo”. “Per me c’è un vuoto nel cosmo / un vuoto nel cosmo / e da là tu canti.”
Il polemista corsaro
E ancora: il polemista corsaro che dalle pagine de Il Corriere della Sera oppone la nostalgia di un passato felice a una modernità tragica, di una società omologata dal consumismo “che appiattisce identità, coscienze, linguaggi” (che continua ad essere sempre più drammaticamente attuale). La concezione del medium televisione che non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi (che di fatto, si può applicare anche ai social media e a tutte le piattaforme digitali di oggi). “L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è ora, il fascismo“, scriveva. Fino alla tragica morte, all’idroscalo di Ostia la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, in un campetto da calcio sterrato del litorale ostiense. Pasolini è morto così, con la testa fracassata da colpi inferti con una tavola di legno. Poi travolto e schiacciato dalle ruote di un’auto, che gli aveva sfondato la cassa toracica e il cuore. Ci fu un unico colpevole ufficiale Pino Pelosi, all’epoca del delitto aveva 17 anni, ma la dinamica dell’omicidio non è stata mai del tutto veramente chiarita e la sua morte tuttora trascina dietro di sé l’ombra di un delitto irrisolto.
Mino Manni: perché Pasolini?
«Pasolini anche oggi sfodera una forza prorompente e misteriosa, inquietante e attuale. Molto è stato scritto su di lui e la sua opera, forse troppo e in non pochi casi travisandolo. Dopo la sua tragica morte, è diventato l’intellettuale più citato e meno letto d’Italia. Ne sono venute fuori tante figurine. C’è il Pasolini che difende i poliziotti-borgatari contro la furia degli studenti del ’68. C’è il Pasolini contro l’aborto e c’è il Pasolini trasgressivo che vive una sessualità ossessiva e violenta. C’è il Pasolini della frase “Io so ma non ho le prove” in cui, denunciando un’intera classe politica, afferma di conoscere i nomi dei responsabili delle stragi di Milano e di Brescia che hanno da poco insanguinato il paese. Ognuno ha preso il frammento che più gli faceva comodo e l’ha dilatato fino a farne l’intera immagine. È diventato impossibile continuare a parlare di Pasolini se prima non si distingue l’autore dal racconto tossico che ne è stato fatto. È proprio per questo che lo spettacolo si basa solo sui suoi scritti, le poesie, le sceneggiature e le lettere senza intromissioni, commenti o fraintendimenti. Il modo migliore di ricordare Pier Paolo Pasolini nel centenario della nascita era forse quello di usare le sue stesse parole, disseminate in centinaia di opere di poesia, letteratura, cinema, saggistica, giornalismo, critica. Non c’è parola, virgola, capoverso che non provenga dalla sua opera. Un atto d’amore sincero».
Chi era Pasolini? Raccontalo ai giovani
« Un uomo che ha fatto dei suoi graffi, dei suoi demoni, dei suoi tormenti il suo punto di forza e che ancora oggi riesce a stupire, ad appassionare e far parlare di sé. È difficile non constatare con meraviglioso stupore quanto fosse avanti lo sguardo dello scrittore. Come disse Alberto Moravia, al suo funerale: “Era un elemento prezioso di qualsiasi società”. A me piace ricordarlo come il grande intellettuale del ‘900 che, da laico, fu animato da un profondo senso del sacro. Celebrò la sacralità degli ultimi, degli invisibili, dei reietti della terra. Intellettuale graffiante, sincero, attraversato da infinite contraddizioni, dubbi, amarezze, non asservito al potere, pronto a gettare il suo corpo nella lotta, dotato di uno sguardo lucido sui cambiamenti di quella società piegata alle leggi del consumismo. Un anticonformista che non sopportava l’anticonformismo. Non gli è stato perdonato il suo aver dato scandalo con le idee come con la sua vita. Ha avuto 33 processi a suo carico, e si rimane colpiti sia dalla varietà dei reati ascritti, dal vilipendio della religione al reato di oscenità, addirittura alla rapina a mano armata. Quasi tutta la sua produzione cinematografica è stata contrassegnata da denunce, polemiche, sequestri, processi, conflitti con le commissioni di censura».
Qual è l’insegnamento maggiore che ci ha lasciato?
«La sua spudorata sincerità continua a essere un insegnamento. Più che la desolata rappresentazione dell’Italia che non c’è più, mi colpisce oggi quanto fosse per lui necessario consumarsi e mettersi a repentaglio, addirittura fisicamente, per poter decifrare e descrivere il suo Paese. La sua voglia di mettersi in gioco fisicamente in modo sempre sincero, spietato anche con sé stesso. La verità si può dire solo facendo la verità, anzi, facendo di sé stessi la verità. Pasolini la sua vita la visse così, totalmente vera e onesta con la natura del suo essere anche contraddittorio e del proprio agire e all’insegna della verità».
La scelta dei testi dimostra da parte tua amore e profonda conoscenza di Pasolini. Cosa ha significato per te la sua figura?
«È uno dei punti di riferimento della mia esistenza da quando ero adolescente. È uno di quegli autori con i quali faccio i conti tutti i giorni. Nella sua opera emerge continuamente un’urgenza di verità che per l’autore si sono sempre dimostrate imprenscindibili e necessarie, sempre alla ricerca della parola poetica che esprimesse nel modo più vero e completo il suo pensiero. E’ quello che anch’io mi pongo ogni giorno nel fare teatro: lavorare sul potenziale della parola. Arrivare al suo centro, al suo splendore segreto di verità. Tutto questo credo che possa tradursi in una possibilità di incontro molto forte».
Eppure succede che in questo mondo sempre più complesso si tenda costantemente a una spaventosa semplificazione. Tutto deve essere rapido, conciso, facile. Ci viene continuamente chiesto di spiegare le cose “in due battute“.
«Proprio così. Per questo dico: riscopriamo Pasolini, solo se e quando riusciamo a risignificare il tempo del nostro presente con altrettanta spietata lucidità. Da quella urgenza di verità occorre ripartire, per liberarci dall’ammasso di inutile chiacchiericcio teso a omologare lessico e comportamenti e a spegnere idee, pensieri e visioni divergenti».
l film che hai amato di più e i consigli ai lettori
«Accattone, il primo film di Pasolini (1961) , con il giovane Bernardo Bertolucci in veste di aiuto regista. Mi ricordo chiaramente il mio restare in stato di meraviglioso sbalordimento di fronte all’uso della musica sacra di Bach come colonna sonora (e che procurò feroci critiche dai musicologi e critici musicali al suo manifestarsi), dall’effetto straniante e maestoso se si pensa che il film parla della vita miserabile e infame del borgataro Vittorio Cataldi, tra tuffi nel Tevere, risse e sbronze che, stremato per la fame, è alla ricerca di una prostituta da sfruttare. Ma è proprio la musica a innalzare la miseria umana alle dimensione del sacro. Pasolini ne intravede un senso di sacralià. “Io sentivo, sapevo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso e Bach mi è servito a far capire ai vasti pubblici queste mie intenzioni”. Il Corale finale dalla Passione secondo Matteo accompagna l’ultima scena, quando Accattone per scampare all’arresto, corre in moto, cade e muore sulla strada: e la sua frase “Ah, mo’ sto bene” è la chiosa solenne del film».