Le radici delle nuove parole che raccontano il conflitto: i film, i libri e le canzoni (molti dei quali israeliani) dai quali le nuove generazioni prendono i concetti con cui interpretano i conflitti nel mondo
Da diverse settimane a Milano ci sono presidi e cortei di quella variegata galassia che un tempo era chiamata pro-Palestina e che ora viene etichettata in mille modi diversi. Parole che comunque sanno di stantio e risultano incomprensibili per le giovani generazioni che si sono formate nell’ambito degli studi post-coloniali, cioè quell’insieme di teorie storiche, antropologiche e letterarie che analizzano le relazioni di potere e le narrazioni dei rapporti tra colonizzatori e colonizzati, decostruendo le categorie razziali e le strutture patriarcali del sapere.
Che dialogo può esserci tra chi, non avendo (ancora) fatto i conti col proprio colonialismo, ripete che “Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente” e chi si è formato sui testi di Oren Yiftachel – professore di Geografia politica all’università Ben Gurion di Beersheba – che ha coniato per Israele il neologismo “etnocrazia” cioè una struttura razzializzata con una popolazione suddivisa in etnoclassi per cercare di mantenere uno sproporzionato controllo etnico su un territorio multietnico conteso? Tra chi si commuove con “Mediterraneo” di Salvatores dove otto militari italiani – in realtà un campionario pittoresco di sprovveduti al comando di un trasognato poeta – si dedicano a restaurare una chiesetta fino a creare una comunità con gli abitanti dell’isoletta e chi è cresciuto con il “Leone del deserto” di Mustafa Akkad, dedicato alla resistenza libica contro l’invasione fascista e osannato come “la prima pellicola sulle brutalità del regime mussoliniano nelle colonie”?
Le parole e i riferimenti dell’immaginario visivo e culturale di questa nuova generazione sono completamente differenti, incrociano anticapitalismo, ambientalismo, femminismo e inclusione delle minoranze: eccole sui cartelloni dei cortei e dei presidi di Milano.
Il Colonialismo è occupazione della terra
Il punto di partenza imprescindibile della narrativa post-coloniale è, ca va sans dire, il concetto di colonialismo inteso come un conflitto che utilizza varie strategie, dall’espulsione di massa al memoricidio, dall’assimilazione culturale alla soppressione brutale di ogni forma di resistenza, come dicono questi striscioni.
Il sionismo viene inteso come nazionalismo etnico e coloniale costruito attorno al tema della terrasu cui si innesta il diritto divino di Israele a “sionizzare” il paesaggio, attraverso l’utilizzo di termini ebraici per sancire la propria esclusiva “indigenità”. Sulla base dell’opera omnia dello storico israeliano Ilan Pappè, professore all’Università di Exter, analizza i meccanismi militari usati per controllare le vite dei palestinesi. Sono numerosi i cartelloni che denunciano come il paradigma centrale non sia la religione né uno scontro cultural-antropologico, ma la terra.
Il rimando è al titolo del testo di Ilan Pappe: “La pulizia etnica della Palestina” che denuncia la pulizia etnica come un tassello essenziale del colonialismo di insediamento sionista.
Non solo testi ma anche moltissimi film e documentari hanno nella terra il focus principale: tra questi “This is my land Hebron” di Giulia Amati e Stephen Natanson; “Private” di Saverio Costanzo e “Five broken cameras” opera a quattro mani dell’israeliano Guy Davidi e del contadino palestinese Emat Burad, candidato all’Oscar.
Anche il filone del terzomondismo ha analizzato il tema del colonialismo a partire dall’appropriazione della terra: basti pensare a “La hora de los hornos” di Pino Solanas che ha come sottotitolo “Note e testimonianza sul neocolonialismo, la violenza e la liberazione” e dà vita al “Gruppo Cine Liberation” che utilizza il cinema come documentazione e strumento di lotta.
Terzomondismo e lotta all’apartheid
La narrativa post-coloniale si collega infatti al terzomondismo degli e dagli anni Settanta, denunciando e destrutturando il carattere manicheo della logica europea ed eurocentrica (colonizzatore/colonizzato, bianco/nero, occidente/oriente, nord/sud e in ultima istanza noi/loro) e utilizza quindi termini e analisi provenienti da esperienze storiche e geografiche molto diverse, ma accomunate da dinamiche di potere molto simili.
Il primo vocabolo problematico è apartheid che evoca immediatamente il Sudafrica e la figura di Nelson Mandela, passato in una manciata di anni dall’essere considerato terrorista a vincere il Nobel per la pace.
Il punto di partenza è sicuramente la risoluzione Onu del 1976 che equipara il sionismo a una forma di razzismo (sconfessata nel 1991 come condizione di Israele per partecipare alla conferenza di Madrid). Il termine apartheid viene utilizzato in riferimento alla Palestina per denunciare l’asimmetria di diritti, l’impossibilità di circolare liberamente e quel complesso sistema di ordinanze e leggi che ha permesso la creazione di insediamenti, che ha giustificato la confisca delle terre e ha fornito una base per l’arresto e la detenzione amministrativa di migliaia di palestinesi. Sebbene contestato dagli israeliani, è entrato non solo nel lessico accademico e giornalistico, come testimoniano numerosi articoli e testi di Amira Hass e Gideon Levy, ma anche nell’immaginario visuale: basti pensare al film “Roadmap to Apartheid” di Ana Nogueira (sudafricana bianca) e Eron Davidson (ebreo israeliano). Questo documentario, frutto dei vissuti personali dei registi e narrato da Alice Walker (autrice del romanzo “Il colore viola”, poi film di Spielberg con Whoopi Goldberg), esamina e approfondisce le analogie tra Sudafrica e Israele.
Una nuova Resistenza
Il secondo vocabolo che assume nuovi significati è Resistenza: uno degli slogan più cantati è “I partigiani ce l’hanno insegnato: la Resistenza non è reato!” ma quale è il confine tra legittima resistenza e terrorismo? Ci sono moltissime definizioni, scritti e documenti su questo tema, ma la letteratura accademica definisce il terrorista come “chi ricorre alla violenza contro civili per obiettivi politici, religiosi o ideologici” e il partigiano “chi opera in una regione occupata da forze straniere o in opposizione a un governo autoritario nel proprio Paese”,
Qui il riferimento accademico è sempre Ilan Pappè quando reclama l’utilizzo di un vocabolario adeguato: serve «un nuovo dizionario che definisca Israele come uno Stato coloniale e la resistenza dei palestinesi come una lotta anticoloniale».
L’inferiorizzazione dell’altro
Il post-colonialismo non si focalizza solo su termini singoli ma anche su tematiche di ampio respiro: in particolare partendo dalla definizione della filosofa Seyla Benhahib: «Le democrazie vanno giudicate non per come trattano i loro membri ma per come trattano l’altro Si interroga sul rapporto noi/loro».
Il primo filone di denuncia sui cartelloni è il tema dell’inferiorizzazione dell’Altro.
Il cartello si rifà allo slogan “Black life matters” come reazione e protesta negli Stati Uniti per le brutalità della polizia contro gli afro-americani e la disuguaglianza razziale nel sistema giuridico. Non solo degli ultimi anni, come dimostra il capolavoro di Peck “I’m not your negro” che esamina minuziosamente la filologia e l’ontologia dell’alterità. Come si dice nel documentario “bianco è il colore del potere” mentre il colore della pelle “nero”, è stato stigmatizzato ovunque perché associato a concetti negativi come schiavitù, malattia, irriducibile antagonismo alla cultura occidentale o scarsa igiene. In Israele il “bianco” significante dell’identità ashkenazita, categoria e categorizzazione privilegiata, è il punto di riferimento visibile di un continuum al cui opposto è situato l’Altro, il “nero”, sia egli l’ebreo di origine araba, il palestinese o più recentemente l’ebreo etiope. Basta guardare il capolavoro di Radu Mihaileanu, “Vai e Vivrai” che racconta di Shlomo, bimbo etiope che arriva fortunosamente in Israele e scopre sulla sua pelle nera il razzismo, provando a tenere insieme identità in contraddizione.
Il cartello Palestinian lives matter fa anche riferimento all’intervista della Cnn tra il giornalista Pierce Morgan e il comico egiziano Basim Youssef (diventata virale su Youtube, con più di 15 milioni di visualizzazioni) sul “tasso di cambio” tra i bambini morti palestinesi ed israeliani; lo squilibrio storico tra il numero dei primi e quello dei secondi lo spinge a chiedere provocatoriamente: quanto vale la vita di un palestinese rispetto a quella di un israeliano? Naturalmente in quanto egiziano costretto all’esilio per la sua partecipazione alla rivoluzione di Piazza Tahrir, questa domanda richiama alla mente anche il verso iconico della canzone degli Ultras della squadra di calcio dell’Al-Ahli: “Politici bastardi, a quanto avete venduto il sangue dei martiri?”. Infatti i manifestanti a Milano alternavano canzoni di contestazione in arabo definite da Omar Barghouti “Intifada delle parole” a canti di resistenza tra cui “Bella ciao” e la versione palestinese “Hulwa ciao” ed “El pueblo Unido”.
Pedagogia dell’oppresso
Il secondo filone di denuncia è la disumanizzazione dell’Altro Se è innegabile che i popoli non coincidano con i loro governi, come dimostrano questo cartellone le foto sotto.
Il termine “palestinesi” viene usato invece spesso nel lessico politico come sinonimo di “terroristi” che giustifica le restrizioni di movimento e le esecuzioni extragiudiziali. Dal 7 ottobre, numerosi politici (ad esempio il ministro della Difesa israeliano) e giornali hanno pubblicamente equiparato i palestinesi ad Hamas e li hanno definiti “animali”, “bestie”, “non umani”. Moltissimi striscioni e cartelloni denunciano questa pratica con la frase “Restiamo umani” con cui l’attivista Vittorio “Vik” Arrigoni (a cui è intitolato il centro culturale italiano a Gaza) concludeva i suoi reportage sotto i bombardamenti dell’operazione Piombo Fuso (tra il 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009), unico cronista internazionale presente. In quel periodo il suo blog diventa il più visitato in Italia e scrive per diverse testate tra cui PeaceReporter. “Restiamo umani” entra poi nell’immaginario sonoro contemporaneo grazie alle canzoni di Enzo Avitabile, i 99Posse, i Radio Dervish e Fedez.
L’immagine è di Carlos Latuff, vignettista brasiliano di satira politica, ed è una rappresentazione artistica di Vittorio Vik Arrigoni che tiene per mano l’Handala, un bimbo di spalle, diventato ben presto simbolo della Palestina. La testa assomiglia al sole (dell’avvenir), i capelli sono aculei per difendersi, i piedi nudi rappresentano la povertà dei campi profughi, lo sguardo è rivolto al mondo intero ed è bambino e tale rimane fino a quando potrà tornare alla sua casa.
Molti altri striscioni sottolineano che “restare umani” significa sentire qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualunque parte del mondo come propria.
Dunque per chi appartiene a questa area di studi che considera il colonialismo e il sionismo come forma di dominio e di reificazione – stante l’impossibilità di riconoscere l’Altro come umano – la soluzione è una sola.
Testi e immagini di Monica Macchi