Alla vigilia dell’8 marzo Radio popolare, storica emittente milanese che quest’anno ne compie 50 di messa in onda, ha rinnovato la propria direzione editoriale affidando, prima volta nella propria storia, l’incarico a una donna. Lorenza Ghidini, classe 1972, lavora in RP dal 1998, da dieci come caporedattrice. La nostra conversazione inizia proprio dall’8 marzo e dai temi che porta con sé, temi che nell’anno appena trascorso hanno avuto una forte risonanza sia mediatica che sociale e rispetto ai quali abbiamo chiesto anche quale sia l’impegno diretto di RP. Abbiamo inoltre voluto approfondire la sua proposta di linea editoriale, che dichiara di voler essere più vicina a ciò che avviene nei luoghi in cui RP è ascoltata, a partire da Milano e le sue zone. Poiché l’antifascismo e la storia della Resistenza le sono temi cari, le abbiamo chiesto anche di commentare le recenti vicende dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani in Italia.
8 marzo. Anche quest’anno Non una di meno ha chiamato lo sciopero produttivo e riproduttivo con il supporto dei sindacati di base. Radio Popolare aderirà sì o no? Con quali motivazioni?
«Radio Popolare aderirà. Il collettivo delle donne di Radio Popolare non sarà in onda, a parte un mio editoriale nel giornale radio della mattina: essendo la prima direttrice donna di Radio Popolare, nominata proprio alla vigilia dell’8 marzo, abbiamo pensato che fosse un’eccezione virtuosa allo sciopero di domani, a cui aderisco anch’io come direttrice.
Sono già un po’ di anni che Radio Popolare aderisce allo sciopero di Non una di meno e anche quest’anno saremo in corteo a Milano con lo striscione di Radio Popolare. Uno spezzone, diciamo così, delle donne, comprese anche le ascoltatrici e naturalmente gli ascoltatori che avessero voglia di sfilare con noi. Anche alcuni colleghi maschi aderiscono però con una modalità differente, perché garantiranno la messa in onda delle nostre trasmissioni. Siamo un mezzo di informazione e fare informazione l’8 marzo è indispensabile.
La quota del nostro stipendio che ci verrà detratta per via dello sciopero sarà destinata, come gli altri anni, a una realtà attiva in favore delle donne o contro la violenza di genere. Quest’anno stiamo cercando di capire come potrebbe essere possibile mandare questo nostro contributo alle donne di Gaza. È difficilissimo, però ci proveremo».
Vuoi riassumere le motivazioni dell’adesione allo sciopero dal punto di vista del tuo lavoro?
«Il mondo dell’informazione è un mondo ancora a trazione maschile. Sembra veramente una cosa innaturale, visto che siamo nel 2024. Io sono la prima direttrice donna di Radio popolare e le direttrici nelle testate giornalistiche in Italia sono veramente ancora molto, molto poche. Quindi ecco, c’è un aspetto che riguarda proprio la nostra professione in generale. Poi noi condividiamo molto la questione della disparità sia di opportunità sia di retribuzione sui luoghi di lavoro.
È stato anche un anno particolare sul fronte della consapevolezza sulla violenza di genere. Io credo che il caso di Giulia Cecchettin abbia smosso qualcosa e che non tutto sia finito. Forse sono eccessivamente ottimista, però io credo che un granello di consapevolezza sia stato seminato da quella vicenda in molte e molti, perché per la prima volta, anche in un mondo profondamente maschilista come quello del giornalismo e anche del giornalismo di sinistra, diciamolo pure senza troppi giri di parole, ho sentito fare discorsi che mai avevo sentito, ho sentito chiedere, interrogare e tirare fuori dubbi. E quindi lo sciopero serve anche per battere il chiodo finché è caldo, perché quello che è stato seminato venga ancora un po’ arato e innaffiato perché possa germogliare. Lo sciopero è un gesto forte e come ogni gesto forte serve anche a farsi notare».
Radio Popolare è un ambiente, per la sua storia politica, molto sensibile a tutti i temi delle discriminazioni e delle diseguaglianze. In che modo, nel corso degli anni RP ha cercato di correggere il sessismo che verosimilmente c’era e c’è anche al proprio interno. Concretamente cosa avete fatto?
«Devo dirti che la necessità di correggere questo andazzo è stata messa a fuoco da pochi anni, e quindi ce ne vorranno parecchi per rimediare a una situazione che va indietro – perché Radio Popolare sta per compiere 50 anni. Avviene da pochi anni, anche grazie alla sensibilità di una collega come Chiara Ronzani, che in questo momento non lavora più con noi ma con cui siamo sempre in contatto, e di altre colleghe. Una sensibilità già c’era, perché Radio popolare alle sue origini era anche legata a mondi femministi. Non è che le battaglie non fossero presenti nella nostra proposta politica e culturale, non è che non siano state rilanciate, anzi abbiamo avuto giornaliste e conduttrici collaboratrici di altissimo livello e molto impegnate, negli anni Settanta e Ottanta o, anche più di recente con Usciamo dal silenzio. Le abbiamo molto raccontate queste battaglie ma poco praticate al nostro interno. Negli ultimi anni si è messo a fuoco che “ok, Huston, abbiamo un problema”. Qui c’è una minoranza veramente esigua di giornaliste, per esempio, anche se va un po’ meglio sul fronte dei programmi musicali. Abbiamo iniziato a dirci, anche se poi non è sempre facile farlo, che dovremmo decidere di assumere più donne che uomini per riequilibrare la situazione al nostro interno (il problema è che quando hai pochi soldi in generale fai fatica ad assumere, quindi c’è un problema a monte).
Nel mio piano editoriale ho suggerito di accettare per un po’ solo domande di stage da ragazze. È una specie di selezione all’ingresso. Sono dell’idea che quando gli spazi non si riesce a crearli o non si creano da soli, bisogna un po’ forzare».
È forma di “discriminazione positiva”. Come l’ha presa la redazione, i tuoi colleghi e colleghe?
«Mi sembra che sia una cosa che, diciamo, può essere nel nostro orizzonte. Noi stiamo cercando di imporci anche di riequilibrare i nostri interlocutori e interlocutrice nelle trasmissioni. Spesso succede, nel mondo dell’informazione, che le persone intervistate siano uomini oppure le donne vengono intervistate su temi considerati “femminili” come la scuola, la genitorialità, le questioni di genere. Quante donne sono intervistate sui temi economici? C’è una disparità da questo punto di vista che stiamo cercando di superare. Perché è anche nostra, questa mancanza. Io ho fatto una trasmissione per tanti anni tutte le mattine e cercare gli ospiti da un giorno per l’altro, con la pressione di avere qualcuno di valido, ovviamente di interessante e di autorevole da mettere in onda, e avere sempre comunque attenzione per un equilibrio tra voci femminili e voci maschili a volte è veramente un’impresa. Però se non te lo imponi poi non lo fai. Cerchiamo, ci stiamo lavorando con una certa fatica, devo dire con alterne fortune. Ma io spero anche che la mia direzione, insomma dia una spinta ulteriore. Spero che ci sia questa possibilità».
E questo ce lo auguriamo in tante. “Territorio” è una parola chiave che hai usato nel presentare il tuo mandato ad ascoltatrici e ascoltatori. Il territorio di Radio Popolare, che ha sede in via Ollearo 5 a Milano, fin dove si estende? Quali sono i confini di questo territorio?
«Se parliamo dell’FM, Radio Popolare si ascolta in Lombardia e nelle zone limitrofe delle regioni confinanti, quindi si ascolta in Piemonte fin verso Novara, in Emilia fin verso Parma, in Veneto fino al lago di Garda. Il nostro ascolto è ancora in larghissima prevalenza in queste zone. Trasmettiamo in streaming ormai da molti anni, quindi ci possono ascoltare da tutto il mondo, però fino a questo momento anche lo streaming è abbastanza sovrapposto a quello che è il territorio della nostra emissione in FM.
Radio popolare è nata come una radio milanese. Come direttore, Piero Scaramucci – che era un grande giornalista, veniva dalla Rai ed è stato fondatore di Radio Popolare – l’aveva rilanciata verso una dimensione nazionale e con la sua direzione Radio popolare si è fatta una reputazione e una riconoscibilità di livello nazionale. Considerando le risorse su cui può contare la nostra redazione, questo negli anni ci ha portato a trascurare un po’ la possibilità di stare sul territorio, di andare a vedere con i nostri occhi, ascoltare con le nostre orecchie quello che succede, raccontare in maniera più diretta, meno mediata».
E quindi, concretamente, più attenzione al territorio cosa vuol dire?
«Soprattutto più uscite, uscite dalla redazione. Per fare un esempio pratico oggi che parliamo in occasione dell’8 marzo: l’idea potrebbe essere mandare un giornalista per una settimana in giro per centri antiviolenza, preparandosi e ragionando su che cosa ci interessa andare a vedere e sentire cosa ci interessa raccontare.
Qui noi abbiamo temi che sono universali. Se parliamo della violenza di genere, della mobilità, dell’ambiente, del diritto alla casa, delle trasformazioni urbanistiche, dei lavori sul tema del lavoro, i nuovi lavori a Milano, il nostro, questo nostro territorio offre tutto. Abbiamo la fortuna di averlo a pochi metri fino a pochi chilometri da noi. Allora mi piacerebbe che tornassimo a raccontarlo vedendolo con i nostri occhi e raccontandolo con la nostra sensibilità, facendo scelte politiche ed editoriali».
Cosa ti viene in mente se diciamo sud Milano?
«Se devo pensare in questo momento a Milano, tutte incluse le sue zone, penso alle trasformazioni urbanistiche in corso. Penso che sia il grande tema da affrontare. Come queste stiano modificando non solo l’aspetto della città, ma la vita dei suoi cittadini e delle sue cittadine e le modalità dello stare dentro la città, di chi non riesce più a starci, di come si stia modificando la composizione degli abitanti.
Questo è un tema che poi riguarderà anche la campagna elettorale per il prossimo sindaco. Oltre che essere diventato di recente anche un tema giudiziario: ci sono inchieste della Procura di Milano che sono abbastanza una novità, un inedito, che stanno facendo un po’ tremare l’assessorato all’Urbanistica e che tolgono il sonno anche al sindaco Sala. È un tema che ci interessa molto, come Radio Popolare lo battiamo già ovviamente da tempo. Credo che sarà forse il tema su cui si giocherà la sfida per Milano».
L’antifascismo, la storia della Resistenza sono temi che hai battuto molto, che ti sono cari. Di recente l’Anpi è stata attraversata da conflitti importanti in relazione alle guerre in corso. Il più recente, sappiamo, ha portato alle dimissioni di Roberto Cenati dalla presidenza dell’Anpi provinciale. Un tuo commento su questa vicenda, nello specifico, ma più in generale rispetto a questa difficoltà che l’Anpi sta attraversando.
«Sì, l’Anpi è in un momento di grande fatica. Non da oggi. Queste dimensioni di Roberto Cenati arrivano dopo due anni di tensioni vere e proprie con la presidenza nazionale. È inutile nascondersi che il presidente nazionale e il presidente milanese hanno due visioni politiche piuttosto diverse e questo è stato molto chiaro. Già si è visto due anni fa allo scoppio della guerra in Ucraina, quando la presidenza nazionale si è espressa contro l’invio a Kiev delle armi italiane, europee e statunitensi. E invece il presidente milanese era di altro avviso.
Adesso, con la guerra a Gaza, queste tensioni si sono riaccese. E anche a Milano ci sono sezioni Anpi che partecipano a cortei pro-Palestina del sabato con la bandiera Anpi, orgogliosamente col fazzoletto dell’Anpi al collo. E in quel corteo ci stanno esponenti e anche dirigenti di partiti che l’Anpi la fanno e la sostengono da sempre. E poi Roberto Cenati, per come lo conosco, era anche piuttosto stanco negli ultimi anni e anche provato e forse ha lasciato anche per ragioni personali.
Con le sue 120 sezioni e 12 mila persone iscritte, l’Anpi di Milano è la più grande d’Italia. È un peccato dividersi con un governo come quello che ci ritroviamo e con una riforma costituzionale alle porte».
La conflittualità e la diversità di vedute tra nazionale e provinciale, è una diversità che si ripropone poi nelle sezioni con la stessa intensità, oppure è più una questione di scollamento tra la base e la sua rappresentanza?
«Premesso che io conosco la realtà Anpi milanese e la realtà degli altri territori non la conosco, c’è sicuramente uno scollamento tra una parte della base dell’Anpi e i suoi vertici, anche se, a onor del vero, le sezioni Anpi che hanno in questi anni maggiormente contestato la presidenza di Roberto Cenati sono una minoranza molto netta sul numero totale delle sezioni Anpi di Milano.
Credo che la divisione sia soprattutto fra nazionale e provinciale e per questo dico che è un peccato. Non è il momento di dividersi perché ci sarà una battaglia da fare per il referendum costituzionale e l’Anpi, come è stato con Carlo Smuraglia ai tempi della riforma Renzi, deve essere in prima linea».
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