«Rosa Genoni ebbe una vita a dir poco straordinaria: è stata una stilista, ma soprattutto è stata una donna che ha saputo dar valore alla femminilità nella moda; ha immaginato la moda italiana e il Made in Italy, riempendoli della bellezza artistica del Bel paese», racconta Elisabetta Invernici, giornalista ed esperta di moda che ha voluto dedicare a Rosa Genoni, in occasione dei settant’anni della sua scomparsa (Varese 1954), un omaggio appassionato attraverso una serie di iniziative (il calendario degli eventi, organizzato dalla Associazione Culturale Profumo di Milano, è consultabile sul sito profumodimilano.com).
«Senza dimenticare l’attivismo sociale, il femminismo, il lavoro con le cooperative di lavoratrici, il sostegno attivo dei profughi di guerra, le idee socialiste e pacifiste. Che una donna creativa possa essere impegnata nel mondo artistico e anche nel sociale, oggi è quasi scontato. Non era certo così nel 1908, Rosa Genoni continua ad intrecciare creatività e attivismo politico. È la prima insegnante di Storia del costume, la prima a occuparsi delle donne operaie. Per lei ogni gesto è politico, anche indossare un abito». Figura importantissima per la moda e per l’emancipazione femminile, eppure è ancora poco conosciuta, persino fra gli addetti ai lavori. «C’è ancora tanto, anzi tantissimo, da sapere. Dovremmo riscrivere la Storia della Moda e del Costume per restituirle lo spazio che merita» sottolinea Invernici.
Il suo abito più iconico? «Il modello Tanagra creato nel 1908 ispirato dalle statuette in terracotta dell’età ellenistica rinvenute durante gli scavi archeologici nell’antica città di Tanagra, in Beozia, i cui abiti drappeggiati furono notati da Rosa durante una visita al museo del Louvre. Rosa propone una nuova femminilità, libera da costrizioni, e non solo quelle degli scomodi corsetti che imprigionano i movimenti delle donne. Quell’abito nero drappeggiato ad arte fu indossato da Rosa il 23 aprile 1908, quando prende parte al Primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane e dimostra che mutare il corso della moda è possibile. Un abito nel quale muoversi con libertà. «Il fatto che utilizzasse sé stessa come promotrice del suo brand, indossando l’abito Tanagra da lei ideato, in seguito, da celebrità come l’attrice Lyda Borelli, è qualcosa di estremamente attuale», conclude Invernici.
Le tappe di una vita unica: dalla Valtellina, a Milano alla ribalta internazionale
Prima di 18 fratelli, Rosa nasce a Tirano, un paese della Valtellina, nel 1867 da una famiglia di umili origini: padre calzolaio e madre sarta. Dopo la terza elementare, a soli nove anni, viene mandata a Milano da una zia, a lavorare come “piscinina” aiutante tuttofare. Ma ben presto la Genoni dimostra di avere una marcia in più: avida di conoscenza desiderosa di migliorarsi, dotata di spirito di iniziativa frequenta le scuole serali e poi si inscrive ad un corso di francese, la cui conoscenza è indispensabile perché, nella moda, la Francia detta legge.
Il suo primo fuoco politico, stuzzicato da un cugino anarchico, si accende davanti agli ideali socialisti del Partito Operaio Italiano che, nel 1884, la inviò a Parigi per un congresso di pochi giorni. Vi restò tre anni. Per migliorarsi: studiare i nuovi metodi di lavoro, il disegno tecnico, il processo creativo, l’organizzazione della catena produttiva, le strategie di promozione.
Rientrata a Milano, viene assunta dalla sartoria Bellotti. Nel 1895 diventa “première” presso la Haardt et fils, prestigiosa sartoria milanese con 200 dipendenti e filiali anche all’estero. Ma inizia anche a proporre dei modelli originali. Il programma è chiaro: affrancarsi dalla moda francese. E tracciare la via di una moda italiana, indipendente. Rosa immagina un futuro di abiti realizzati da maestranze italiane, sulla base dell’arte italiana. Grazie al suo impegno nel 1909 nasce il primo comitato promotore per una “Moda di Pura Arte Italiana”,
Il 1906 sarà l’anno fondamentale per l’affermazione di Rosa Genoni. Partecipa all’Esposizione Universale di Milano dove accompagna le sue creazioni con un opuscolo “Per una moda italiana”. Due furono gli abiti tra i più discussi e ammirati: quello ispirato alla Primavera di Botticelli realizzato in raso color avorio, ricamo in argento e oro filati, sete policrome, ciniglia, cannucce, paillettes e perle. E un mantello ispirato ad un disegno di Pisanello, realizzato in velluto di seta verde, decorato sia da inserti in raso giallo e merletto ricamato sia da ricami in filati metallici d’oro e d’argento, cannucce e conterie in vetro (gli abiti sono attualmente esposti a Palazzo Pitti a Firenze).
Nel contempo, il suo impegno per migliorare le condizioni delle lavoratrici si fa ancora più stringente. Comincia a frequentare i circoli operai. Entra a far parte della Lega Promotrice degli Interessi Femminili per abbracciare poi le posizioni di Anna Kuliscioff, la compagna di Filippo Turati, con cui strinse una forte amicizia e con la quale sostenne le battaglie per l’emancipazione femminile, rivendicando il diritto delle donne a ricevere un’istruzione e a partecipare alla vita pubblica, anche dalle colonne de “La Difesa delle lavoratrici”, giornale fondato dalla Kuliscioff.
Per 28 anni (fino al 1933) dirigerà la sezione Sartoria della Scuola professionale femminile della Società Umanitaria di Milano, creata per dare istruzione e basi lavorative alle fasce meno abbienti della popolazione. Applica un innovativo metodo di insegnamento: la didattica visiva, con oltre 200 diapositive. Scrive dei libri di testo sulla storia della moda attraverso i secoli. Fonda un laboratorio di sartoria all’interno del carcere di San Vittore, cui seguiranno altre iniziative, un asilo e il primo ambulatorio di igiene interno.
Quando conosce nel comune ambiente socialista Alfredo Podreider, avvocato di grande prestigio e di famiglia benestante, nella Milano dei primi del Novecento, con lui inizia una relazione destinata a durate tutta la vita dalla quale, nel 1903, nasce la figlia Fanny. Con modernissima indipendenza, si sposeranno solo nel 1928 dopo la morte della suocera, che mai accettò la figura di questa rivoluzionaria.
Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale è la fondatrice dell’Associazione “Pro Umanità”, accogliendo in un padiglione prossimo alla stazione centrale di Milano gli sfollati in arrivo dal Belgio. Partecipa, unica italiana tra 1.136 donne, al Congresso Internazionale Femminile dell’Aja (1915) facendo parte di una delegazione ristretta che chiede di promuovere la pace. Nel 1948 scrisse un’appassionata lettera al conte Folke Bernadotte, mediatore dell’Onu, per la questione palestinese in cui auspicava la pace tra arabi e ebrei.