«Le sculture le faccio mica per tenerle in studio! Voglio dare loro un posto, una casa. Sono fatte per stare all’aperto; dentro un museo, sia pure con tutti i criteri di illuminazione, sarebbero statiche. Così invece sono vive, cambiano colore nelle ore del giorno, con le stagioni e con gli anni si modificano».
Maria Cristina Carlini è un’artista milanese di fama internazionale. Ha donato alla città di Milano una sua opera monumentale, Obelisco, esposta in permanenza dal 21 giugno 2024 in piazza Berlinguer. Si aggiunge alle altre tre opere La porta della giustizia (2007), Vento (2013) e La nuova città che sale (2014), esposte permanentemente nel cortile della Corte dei Conti, nel Parco-Scultura dell’Idroscalo e presso la Fiera di Milano-Rho.
Abbiamo incontrato la scultrice nel suo laboratorio, in via Savona, al piano terra di una palazzina un tempo stabilimento industriale di Schlumberger per la produzione di contatori del gas, oggi riconvertita in un complesso con studi fotografici, di design e architettura, atelier di moda, ma anche abitazioni. Entrando nel grande loft inondato di luce, si coglie subito la grande energia, la forza vitale che sprigionano le sue sculture. Opere imponenti, immobili in un tempo sospeso, sembrano totem di un’antica civiltà scomparsa, eppure straordinariamente contemporanee. Vigorose e pesanti, comunicano un senso di immaterialità; slanciate fra cielo e terra, si aprono a nuovi orizzonti. I due forni, perché «il gres richiede una cottura a temperature più elevate, tra 1200° e 1300°», spiega l’artista, ne fanno una sorta di fucina di Efesto-Vulcano, il fabbro divino che nella mitologia forgiava armi e gioielli mirabili ed ebbe in moglie la più bella tra le dee, Afrodite, a simboleggiare la bellezza e la fatica di ogni impulso creativo.
L’Obelisco
L’Obelisco è alto più di quattro metri, cattura immediatamente lo sguardo. Anzi dà un’identità, una fisionomia, una forte connotazione a una piazza. La scultura dalle linee essenziali è in acciaio corten ricoperto con legno di recupero percorso da fori. L’opera presenta curvature e fratture che ne mostrano la longevità e il suo precedente impiego, quando era parte di una vecchia struttura utilizzata per la mungitura delle mucche. Il titolo Obelisco rimanda alla celebrazione monumentale: ma qui dice di un omaggio alla “storia senza nomi”, quella fatta «non da eroi ma da una comunità che si riconosce e si stringe attorno a un valore antico e condiviso», dice Carlini. «Avevo espresso solo il desiderio che fosse collocata in un’area pedonale per suscitare una reazione emotiva o intellettuale in chi si fermasse a osservarla. E mi hanno proposto addirittura piazza Berlinguer, a pochi passi dal mio atelier! Questa piazza, realizzata nel 2012 presso gli ex uffici della Osram, l’ho vista diventare quel polo di fermento culturale che è oggi, con la libreria, il caffè e Seicentro, uno spazio messo a disposizione dal Municipio 6 per esposizioni temporanee di giovani artisti».
Maria Cristina sa benissimo di essere una delle poche donne scultrici, ma dice che «l’arte non ha genere, anche se storicamente il mondo dell’arte è stato sempre declinato al maschile e l’opera di una donna non ha la stessa visibilità dei colleghi uomini».
Certo, però questa forma d’arte richiede energia, fatica.
«Le mie creature sono molto esigenti, come me, ma senza di loro non riesco a stare. Ci vuole tempo per crearle. Ci sono momenti in cui è meglio lasciare stare, dedicarsi ad altro. Altri in cui io lavoro tutto il giorno, perché sono concentrata. Poi però la pago, sono distrutta. Ma la mia “vera forza” è che fare scultura è una necessità: per esprimermi, raccontare e dare voce all’interiorità che emerge solo attraverso le mie opere. Non so, mi pare di illuminarmi. Quando lavoro, vivo emozioni che si riflettono nell’opera che sto creando».
Quando è cominciato il suo percorso artistico?
«A Palo Alto, in California, dove arrivo giovane laureata in legge, seguendo mio marito trasferitosi per lavoro. Trascinata dalla moglie di un suo collega, frequento alla California College of Arts un corso di ceramica al tornio. Nell’incontro fra mani e acqua, fuoco e argilla, scatta subito la passione, il fascino, quello di usare le mani come strumenti per far nascere un oggetto dall’unione dei quattro elementi naturali: la terra unita all’acqua diventa materia duttile; l’aria asciuga il manufatto; il fuoco lo cuoce. I primi lavori sono vasi di ispirazione giapponese, alti e stretti, oppure tondi rivestiti di smalto, poi ho abbandonato gli smalti e ho sperimentato altri materiali come il gres. Nell’84 durante un soggiorno di studio a Oakland, le prime sculture: pannelli monocromi bidimensionali, appesi ai muri. Non osavo ancora farli scendere a terra!».
La scelta delle grandi dimensioni?
«La scultura è ingombrante, impegnativa: è questo il suo fascino, ti costringe tuo malgrado ad affrontarla. La scultura monumentale non è semplicemente l’ingrandimento del modello, non si tratta solo di un salto di scala. Spesso l’opera finale differisce dall’abbozzo, perché nasce da un’interazione continua con la materia, da un coinvolgimento emozionale. L’idea richiede tempo, deve maturare in me prima di poterla esprimere».
Legno, acciaio corten, impreziositi da rivoli e “spugnature” d’oro, spesso incastonati in una struttura in ferro: i materiali di recupero rappresentano un punto chiave della sua poetica. Cosa racconta questa scelta?
«Sono elementi che paiono custodire il segreto della terra e dell’umanità intera, saperi antichi. Quello che cerco, con fatica, rispetto e tenerezza, è di arrivare all’essenza, al primitivo che è in tutti noi, a un’armonia perfetta con il creato. Rispetto questi materiali, così come le caratteristiche che li contraddistinguono, che tendo a non snaturare, esaltandone le peculiarità. Amo il legno di recupero, che ha già avuto una sua storia e ha al suo interno una memoria, e va ascoltato, assecondato, capito, amato. È un po’ la metafora della vita dell’uomo: vive e respira, il tempo lo lavora, lo modifica e lui cambia divenendo ancora più potente. Bisogna saper scegliere il legno giusto e saperlo rispettare. L’acciaio corten è il contrario del legno, e su questa antitesi mi piace muovermi. L’oro illumina di luce le superfici».
Come racconterebbe il suo modo di lavorare?
«Vedo un legno che mi piace, lo prendo, lo metto in studio. Lo guardo, ci passo accanto, lo tocco e poi all’improvviso, magari a distanza di tempo, sento il bisogno di lavorarlo: a volte scatta un’immagine, a volte no. Parto con un’idea ma posso cambiare quando lo lavoro, è una sorta di dialogo, un percorso insieme. La materia mi parla, mentre il gesto prende fisicità, consistenza, energia. Ecco: se nelle mie opere utilizzassi solamente la mia componente razionale, con tutta probabilità non riuscirei a definire niente e mi bloccherei. L’opera è finita quando sento la resistenza del materiale, la sua voce che mi dice: “basta!”».
Di quali materiali è fatta Milano?
«Metallo e terra».
Cosa augura alla città?
«Di rimanere con il cuore in mano, una città a dimensione umana. E di avere finalmente un museo di arte contemporanea».
Per concludere: il monumento più bello di Milano?
«Santa Maria delle Grazie, un capolavoro di proporzione e armonia. Un esterno sobrio ma imponente, semplici mattoni grezzi a vista che al tramonto si tingono di rosa».
Per ulteriori info: www.mariacristinacarlini.com