C’era una volta il Capolinea, un tempio della musica dove suonarono Chet Baker, Miles Davis e Gerry Mulligan

Jazz al Capolinea.
Jazz al Capolinea.
Concerto jazz al Capolinea.

Il Capolinea di Milano era il cuore pulsante del jazz, un centro di gravità per chiunque amasse o praticasse questo genere musicale. Era in fondo ai Navigli, al capolinea del 19, al confine ultimo della città. Lì i più grandi nomi del jazz internazionale e i talenti locali si sono ritrovati per decenni creando momenti unici, improvvisando fino all’alba, condividendo una passione comune in un’atmosfera irripetibile. Con il suo pubblico fedele, Giorgio Vanni insieme alla famiglia a fare da padroni di casa e un palcoscenico che accoglieva leggende del jazz, il Capolinea è stato molto più di un semplice club. Era un rifugio, dove la musica dal vivo diventava un’esperienza immersiva, tanto che la magia di quel luogo resta impressa nella memoria di chiunque l’abbia vissuta. Un gioiello prezioso della ricca scena musicale milanese dell’epoca. E per gli appassionati, il tempio dove recarsi per il rito liturgico, officiato sulle ali dell’improvvisazione. I nomi evocano un’epoca d’oro. Artisti del calibro di Chet Baker, Miles Davis, Dizzy Gillespie, Gerry Mulligan, Steve Lacy, Chick Corea, insieme a tanti altri, sottolineano l’importanza internazionale del Capolinea. La malinconia di quei commiati, come quello di Bill Evans, e l’atmosfera che avvolgeva Chet Baker, sono ricordi scolpiti nella storia del jazz a Milano. Ogni singolo musicista menzionato ha contribuito in modo unico a creare un clima irripetibile. Nando De Luca e Paolo Tomelleri con il loro entusiasmo, Lino Patruno con il suo legame con Joe Venuti, e tutti gli altri, sono stati le anime di quel luogo.

Da sinistra Giorgio Vanni, Tullio De Piscopo, Giovanni Spadaccini della Tosco Cymbal, Kenny Clarke e Art Blakey.
Da sinistra il boss del Capolinea jazz club Giorgio Vanni,Tullio De Piscopo, Giovanni Spadaccini della Tosco Cymbal, Kenny Clarke e Art Blakey.

Con il suo calore e autenticità, il Capolinea per molti è stato una seconda casa. I Vanni avevano creato un ambiente in cui ogni ospite si sentiva parte di una grande famiglia, complici la musica avvolgente, la convivialità sincera, le piccole attenzioni – come la bruschetta a prezzi modici – che lo rendevano accessibile a molti. Il legame con Milano è stato così forte, che il pianoforte del Capolinea adesso si trova nella palestra che compare nel film Rocco e i suoi fratelli, presso l’Arci Bellezza, così per dire.

Oggi al 119 di Ludovico il Moro ci sono abitazioni, studi e accanto un hotel con un ristorante chiuso. Tramandare quella memoria diventa un tributo per ridare vita a quel luogo e all’atmosfera unica che lo caratterizzava.

Lino Toffolo, Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni, Enzo Janacci.
Lino Toffolo, Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni, Enzo Janacci sul Naviglio Pavese, fuori dal Capolinea.

Testimonianze

ANGELICA VANNI, UNA DELLE TRE FIGLIE DI GIORGIO E MARIA VANNI

«Mio padre ha rischiato molto quando ha aperto il Capolinea perché, con la moglie, aveva già tre figlie da sfamare. Abbiamo aperto dopo l’attentato di piazza Fontana. In città era calata un’atmosfera di terrore, così non usciva più nessuno, però mio padre ha aperto lo stesso perché oramai aveva fatto tutto. All’inizio era una cosa nuovissima a Milano, là in fondo dove avevano aperto, non c’era niente a quei tempi. Non c’erano tutti i locali di oggi sui Navigli. A Milano esistevano solo i night, i ristoranti e basta. Per il jazz c’era giusto il Santa Tecla, che però era in centro ed era solo per un certo ambiente.

Il Capolinea è diventato di moda subito: nel giro di tre o quattro mesi, arrivavano sia quelli della Milano bene, perché sembrava una cosa nuova, un ambiente dove si mangiavano pasta e fagioli e bruschette, ascoltando raffinata musica jazz; e poi i ragazzi, la gioventù e la gente normale. Capitava lì il Teo Teocoli con una modella seduti a un tavolo e, di fianco, quattro ragazzotti che di giorno facevano gli operai. La sera, prima di iniziare a lavorare, si mangiava verso le sette, tutti insieme, con i camerieri, i musicisti, gli amici e la famiglia. Era una cosa proprio speciale. Non potevi mica pensare agli affari tuoi, perché arrivava il musicista e ti chiedeva: “Ma allora la sorella si è fidanzata?”. È stato veramente bello. Quando abbiamo chiuso, il primo mese è stato uno shock, perché mi trovavo a casa a mangiare sola con mio marito e dicevo: “Beh, che noia”. Prima era tutta un’altra cosa! Ci ho messo un po’ a entrare nell’ottica di una vita normale. Mica capita a tutti, per anni, di cenare con una famiglia di altre venti persone».

Laura Vanni (al centro).
Laura Vanni (al centro).

ANTONIO RIBATTI, DIRETTORE ARTISTICO AH-UM MILANO JAZZ FESTIVAL

«Nonostante i numerosi tentativi, non esisterà più un luogo come il Capolinea, perché non esiste più la società che lo alimentava: oggi è tutto cambiato. Una volta non c’era la telefonia mobile, se eri un musicista e volevi prendere una data dovevi andare direttamente al locale e cercare di intercettare Giorgio Vanni. Fare il musicista significava stare sempre in giro a suonare e, se volevi trovare altri colleghi, si passava dal Capolinea perché la gente andava e lì poteva succedere sempre qualcosa. Insomma, il locale era un catalizzatore, è così che si creava una comunità che era una specie di famiglia dove tutti, musicisti, pubblico, giornalisti, operatori del settore, critici musicali si trovavano per fare e ascoltare musica, scambiare opinioni e respirare quella mitica meravigliosa aria che il jazz sa creare quando le condizioni sono favorevoli».

Copertina del Banco del Mutuo Soccorso.
Copertina del Banco del Mutuo Soccorso, dedicata al Capolinea.

DENIS CANCINO, IL TECNICO DEL SUONO CHE SERVIVA ANCHE LE BIRRE

«Una sera che c’era il concerto di Chet Baker, con la scusa che mio fratello Patrizio, che stava con Alessandra, la figlia giovane del Vanni, vi lavorava, siamo andati al Capolinea, che per noi era un po’ proibitivo, perché i prezzi non è che fossero proprio popolari ma, conoscendo Patrizio, ci facevano un prezzo di favore. Quindi andiamo a sentire Chet Baker, che io ai tempi conoscevo appena e non sapevo la portata del personaggio. Allora c’era la “sciura Maria”, la moglie di Giorgio, la mamma di Laura, Angelica e Alessandra. Era una donna molto energica, ogni tanto usciva dalla cucina urlando, si lamentava per il casino di gente e diceva che non ce la faceva. Così io mi sono proposto di darle una mano. Parliamo della metà degli Anni Ottanta. All’epoca ero disoccupato. Ho cominciato a servire ai tavoli e sparecchiare, lavorando regolarmente durante i fine settimana. L’ambiente era carino, c’era la musica, tanta gente.

Quando arrivavano i musicisti facevo il tecnico e poi servivo ai tavoli e facevo il barista. In seguito, negli Anni Novanta ho fatto anche il bruschettaro… Ne ho visti tanti di personaggi passare dal Capolinea, artisti e non solo. C’era una clientela molto particolare, gente davvero famosa. I musicisti americani arrivavano sempre all’ultimo, il soundcheck si faceva direttamente mentre suonavano e non vi dico le rotture, perché c’erano vari problemi da risolvere sul momento. E si doveva improvvisare. C’era un mixer a otto piste, un Yamaha vecchissimo. Il palco era piccolino, quindi c’era un casino di problemi con il suono e con i cavi. Facevo il tecnico e servivo birrette, quello è stato il periodo più bello».

Copertina del disco: Chet Baker at Capolinea.
Copertina del disco: Chet Baker at Capolinea.

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