L’Ambrogino d’Oro 2024 a Sandra, partigiana (quasi) centenaria

La staffetta partigiana Sandra Ghilardelli. Foto Lucia Sabatelli.
La staffetta partigiana Sandra Ghilardelli. Foto Lucia Sabatelli.

Sandra Ghilardelli ha ricevuto l’Ambrogino d’Oro dalla città di Milano il 7 dicembre. Classe 1925, il prossimo anno raggiungerà quota cento. Nome di battaglia Sandra, a 18 anni è stata staffetta partigiana fra le montagne della Val Grande, in Piemonte sopra il Lago Maggiore, dove era sfollata insieme alla famiglia. L’abbiamo incontrata per condividere con lei questa gioia e per ripercorrere alcuni ricordi della sua vita. Sandra ci chiede subito di darci del tu.

Sandra, ti aspettavi di ricevere l’Ambrogino?

«Ho reagito con stupore ed emozione dicendo: “Ma no, ma no, l’Ambrogino a me no!”».

Da dove ha inizio la tua storia con la Resistenza?

«Premessa: senza le donne la Resistenza non sarebbe stata la stessa. Senza le contadine, le operaie, le staffette. Non si è mai parlato abbastanza delle donne. Io sono figlia di un antifascista, per cui sapevo che il fascismo era una dittatura che, come tutte le dittature, toglieva la libertà all’uomo. Mio padre mi diceva che “la libertà per l’uomo è la ricchezza”, per cui quando è stato il momento, ho detto: “Io ci sono”. Da Milano, nei primi anni Quaranta siamo sfollati a Crescenzago e poi, intorno al 1942, ci siamo spostati a 800 metri sopra Intra, zona di boschi. Papà e io, dopo l’8 settembre ‘43, abbiamo cominciato ad aiutare quelli che scappavano, giovani che avevano solo le divise e cercavano rifugio in Svizzera. Nell’ottobre ‘43 vedo due ragazzi seduti sulla panchina davanti a casa nostra e dagli abiti ho capito che stavano scappando. Ho chiesto: “Scusate, siete partigiani?”, “No, siamo ribelli”. E io sempre più timidamente: “Voglio aiutarvi, ditemi cosa posso fare”. Ci siamo visti la mattina seguente a Premeno. Dopo avermi fatto un pesante terzo grado, mi hanno messa subito a lavorare».

Che attività svolgevi?

«Andavo nei boschi la mattina molto presto o la sera molto tardi, al buio, senza torcia. Aiutavo un amico medico a soccorrere i feriti. Tra le cose di cui avevano sempre bisogno c’era il disinfettante, mi facevo mandare confezioni ospedaliere di Streptosil da amici di famiglia di Milano. Poi servivano bende, che facevamo in casa, e calze perché in montagna faceva freddo. A casa abbiamo disfatto tutte le nostre calze e coperte e abbiamo usato tutta la lana che avevamo. Quando è finita abbiamo aperto i materassi, ne abbiamo presa un po’ da ognuno, con un arcolaio l’abbiamo filata e fatto calze in continuazione. Anni dopo abbiamo incontrato un compagno partigiano che aveva appeso allo specchietto dell’auto uno dei calzettoni fatti da noi, erano stati la sua salvezza contro il congelamento. Può sembrare una stupidaggine, ma a me ha fatto grande piacere».

Ti ricordi un episodio in particolare?

«Sì, una sera mi mandarono a chiamare perché Sascia, un partigiano, era ferito gravemente a un gomito e andava operato subito. Serviva però un anestetizzante o qualcosa per stordirlo. Di alcol non ce n’era, ma una signora mi diede del Vov. Dunque ho anestetizzato una persona col Vov, se ci penso sto male ancora adesso, però è andata bene».

La staffetta partigiana Sandra Ghilardelli nella sua casa di Milano. Foto Lucia Sabatelli.
La staffetta partigiana Sandra Ghilardelli nella sua casa di Milano. Foto Lucia Sabatelli.

Hai mai incontrato i fascisti? 

«Purtroppo sì. Un giorno dovevo andare a Intra da un primario che conoscevo per far curare un partigiano con la peritonite. In discesa si andava in folle ma per tornare ci voleva la benzina e per recuperarla io e la mia compagna dovevamo attraversare due ponti a piedi. Su uno troviamo un milite della Muti che ci chiede i documenti. Io gli mostro la mia carta d’identità – ancora del Regno – che lui mi straccia davanti agli occhi. A quel punto dice di volerci portare dal suo comandante in caserma. Sapevamo tutte cosa accadeva in quella caserma alle ragazze. Là vicino c’era un comando della Decima Mas e un ufficiale si avvicinò chiedendo cosa stesse succedendo poi, facendo valere il suo grado e litigando col fascista, ci prese in consegna. Ci portò dal comandante al quale chiese la benzina. Ci fece passare per sue conoscenti e persone fidate: ci disse poi che, vedendo la scena, gli avevamo ricordato le sue sorelle. Un’altra volta, durante un tragitto in treno da Intra a Premeno, mentre portavamo una missiva al Comando di Liberazione Nazionale, fermarono il convoglio e ci perquisirono. Arrivato il mio turno, rovescio la borsa tenendo la busta in mano e nessuno ci fece caso, forse proprio perché l’avevo messa in bella vista».

Lucia Sabatelli con Michele Fiore, comandante partigiano, nome di battaglia Mosca.
Sandra Ghilardelli con Michele Fiore, comandante partigiano, nome di battaglia Mosca.

Durante la Resistenza hai conosciuto il tuo futuro marito…

«Sentivo nominare sempre questo Mosca. Una domenica mattina, il 4 agosto 1944, sentiamo movimento sotto casa. Dalla finestra vediamo un uomo vestito da SS e ci spaventiamo tutti. Dopo un po’ i compagni partigiani iniziano a parlare con questo soldato, che era Mosca, il tenente Michele Fiore travestito! Mi sono innamorata in uno scambio di battute. L’ho rivisto un anno dopo, il 15 luglio 1945, tra l’incredulità di tutti perché non credevano tornasse. Non ci siamo più lasciati. Ci siamo sposati nel gennaio del 1948 e siamo stati insieme 65 anni meravigliosi. Sono stata una figlia, una sorella, una madre e moglie fortunata».

In questi anni sei sempre andata a parlare di Resistenza nelle scuole.

«Sempre insieme a mio marito e ancora vado dove mi chiamano. Per me testimoniare è una cosa naturale, ma anche un dovere, perché mi sono resa conto che se n’è parlato troppo poco, questo anche per colpa nostra. È brutto odiare ma io odio il fascismo, perché nega le libertà e un uomo senza libertà non può essere felice. Penso che il fascismo ci sia ancora oggi e che incarni un modo di vivere e di lavorare. Sono sempre stata di sinistra e innamorata dei giovani, molti sono davvero capaci. A loro e a noi dico che bisogna reagire. Bisogna partecipare ai cortei e dimostrare che ci siamo. E siamo in tanti».

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