A Palazzo Reale fino al 2 febbraio in mostra “Ugo Mulas. L’operazione fotografica”, quasi 300 scatti in bianco e nero – alcuni mai esposti prima d’ora – libri e filmati. Curatori Denis Curti, direttore artistico delle Stanze della Fotografia di Venezia, e Alberto Salvadori, direttore dell’archivio Mulas
“Le fotografie non devono essere belle. Devono essere “buone”, interessanti. Una fotografia può anche essere imperfetta sul piano compositivo e tecnico, può essere mossa, sfuocata… ciò che conta è il messaggio che vuole trasmettere. Il contenuto che porta con sé». A Palazzo Reale, alla mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica, le quasi 300 fotografie sono tutte buone e tutte in bianco e nero. Niente digitale: siamo fra gli Anni Cinquanta e i primi Settanta quando si usavano macchine fotografiche meccaniche senza messa a fuoco automatica, caricate con rullini di pellicola che poi dovevano essere sviluppati e i singoli fotogrammi ingranditi proiettandoli su un foglio di carta sensibile per ottenere la stampa.
Forse Mulas non è un nome molto conosciuto dal grande pubblico perché è scomparso prematuramente nel 1973 a soli 45 anni ma le sue riflessioni – le Verifiche – segnano una tappa fondamentale nella storia della fotografia italiana, ben prima che il mondo della cultura iniziasse a occuparsene seriamente. I curatori della mostra Denis Curti, direttore artistico delle Stanze della Fotografia di Venezia, e Alberto Salvadori, direttore dell’archivio Mulas, hanno deciso di aprire il percorso della mostra proprio con queste Verifiche su cui Mulas ha lavorato negli ultimi anni della sua vita. Lui stesso presentò questa operazione nel libro La fotografia: «Ho cominciato a fare delle foto che hanno per tema la fotografia stessa, una specie di analisi dell’operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé. Per esempio, che cosa è la superficie sensibile? Che cosa significa usare il teleobiettivo o un grandangolo? Perché un certo formato? Perché ingrandire? Che legame corre tra una foto e la sua didascalia?».
Le fotografie delle Verifiche sono un ragionamento compiuto e articolato sul rapporto tra la fotografia e la rappresentazione della realtà, uno dei temi centrali nelle discussioni sulla fotografia dalla sua invenzione fino ai nostri giorni. Per Mulas documentare, spiegare, raccontare la realtà con le sue immagini è sempre stata la questione più importante.
Gli inizi al Jamaica nel cuore di Brera
La storia professionale parte a Milano da una fiaschetteria – il Jamaica – punto di ritrovo vicino all’accademia di Brera di pittori, artisti, fotografi, intellettuali, giornalisti negli anni del dopoguerra. Sono queste frequentazioni che lo formano intellettualmente e lo spingeranno nel 1954 a partire per Venezia per fotografare la Biennale d’Arte: le documenterà tutte fino al 1972. Ad attirarlo non sono tanto gli oggetti d’arte quanto i personaggi, la gente, il senso dell’evento. Da qui nasce l’etichetta di Mulas fotografo degli artisti.
In realtà Mulas fin dall’inizio della professione, nella seconda metà degli Anni Cinquanta, collabora con il mondo dell’industria, della pubblicità e della moda; pubblica diversi reportage su L’Illustrazione italiana, la Rivista Pirelli, Domus; le sue fotografie escono regolarmente su Bellezza e Novità (che diventerà Vogue Italia); collaborerà stabilmente con la stilista Mila Schön. È il fotografo del Piccolo Teatro, quello fondato da Paolo Grassi e Giorgio Strehler; seguendo la tournée del teatro in Russia nel 1960, raccoglierà un reportage di un paese allora pochissimo conosciuto in Occidente.
L’ esempio emblematico del dormitorio di viale Ortles
In una sezione della mostra sono esposti 45 ritratti: molti artisti ma anche personaggi dello spettacolo e della cultura. In una piccola sezione c’è il celeberrimo ritratto di Eugenio Montale – poeta amatissimo da Mulas – che guarda un’upupa; è esposto insieme a una serie di fotografie scattate per illustrare alcuni versi di Ossi di seppia perché Mulas pensa «che l’illustrazione debba aiutare a capire il testo, debba aiutare a leggerlo».
Nell’esposizione è lampante come per Mulas la fotografia sia il mezzo non solo per documentare ma per spiegare. È sempre questo il filo conduttore del suo viaggio fra gli artisti della Pop Art newyorkese, un’altra corposa sezione della mostra. Per usare l’espressione del critico Germano Celant, Mulas «arriva a scrivere un testo fotografico eccezionale», diventato nel 1967 il libro New York: arte e persone.
Esposta con un certo risalto c’è una singola fotografia del Dormitorio pubblico di viale Ortles, oggi intitolato a Enzo Jannacci, scattata nel 1969; tutto è in perfetto ordine con i letti rifatti ma senza alcun ospite. Nelle parole di Mulas «un’immagine così agghiacciante che l’aggiunta dei tipi che normalmente vi passano le notti l’avrebbe resa o troppo fumosa o troppo tenera». Da qui parte l’idea di un progetto, rimasto purtroppo incompiuto, di un Archivio per Milano fatto di fotografie di «interni che non guardiamo mai, o perché siamo distratti dalla gente, o perché non proviamo alcun interesse per la gente che li abita. Case di operai, di impiegati, di professionisti, di ricchi, oppure fabbriche, aziende, mercati, carceri, scuole […] quello che non si vede o non si vuol vedere, o che non si vuol far vedere», una serie di immagini senza le persone perché c’è un modo di «fotografare la catapecchia dove una donna vive coi suoi bambini senza metterci né la donna né i bambini, e arrivare comunque ad un’immagine eloquente della loro condizione».
Articolo di Carlo Cerchioli