All’indomani della delibera del Comune che prevede la chiusura del campo di via Chiesa Rossa, parla Dijana Pavlović, portavoce del Movimento Kethane
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«Non è una questione ideologica, di “campi sì, campi no”. I campi rom devono essere superati perché sono luoghi di segregazione, nati con una concezione sbagliata. Si devono cercare soluzioni adeguate alle persone che ci vivono e alla loro storia». Chi parla è Dijana Pavlović, attrice e mediatrice culturale, portavoce del Movimento Kethane – Rom e Sinti per l’Italia, che da anni segue la comunità rom del Villaggio delle Rose di via Chiesa Rossa, a Milano. L’occasione è il 27 gennaio, giorno in cui si ricorda il Porrajmos, il genocidio delle popolazioni rom e sinti nei lager nazisti.
L’incontro con Dijana Pavlović avviene a poche settimane dall’avviso inviato dal Comune ai residenti del campo di via Chiesa Rossa, in cui si parla del superamento – eufemismo che significa chiusura – del campo. Comunicazione formale, che segue la delibera di giunta, in cui si evidenziavano “i numerosi episodi di criticità per la sicurezza urbana e di illegalità” avvenuti in questi anni nel campo; i problemi di salubrità, dovuti sia alla rete fognaria sovraccarica per l’aumento degli insediamenti abusivi, sia ai cumuli di rifiuti nocivi su “le aree immediatamente contigue”; infine di sicurezza poiché “la quasi totalità dei nuclei familiari presenti ha allacci abusivi alla fornitura elettrica”.
Djana Pavlović, qual è il suo pensiero sulla questione del superamento dei campi nomadi e sui motivi del dissenso espresso dalla comunità?
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«Occorre affrontare ogni specifica situazione. Una cosa sono gli insediamenti tipo baraccopoli con duemila persone finite lì per disperazione perché non hanno un altro posto, come a Roma o Napoli, in cui esiste una emergenza abitativa. Diverso il caso di campi autorizzati dove esiste un minimo di infrastrutture. Purtroppo, negli anni sono stati commessi errori: nei casi che ho seguito le amministrazioni comunali investivano poco, non si confrontavano
con le persone, non promuovevano progetti di inclusione adeguati. Così durante gli sgomberi, chi poteva si gestiva autonomamente, ma molti rimanevano per strada».
Il campo di via Chiesa Rossa come è nato?
«Quello che noi chiamiamo Villaggio delle Rose è un campo comunale concesso nel 2001 dal sindaco Albertini alla comunità rom che viveva da anni nel campo non regolare di via Fattori, a Muggiano. Quando la società Esselunga chiese di costruire lì un supermercato, il Comune reperì un terreno in fondo a via Chiesa Rossa, in mezzo ai campi, e trattò affinché la società elargisse un contributo a ogni famiglia, intorno ai 40 milioni di lire, affinché potessero crearsi un’abitazione. Il Comune assegnò a ogni nucleo familiare una piazzola di 100 mq, su cui posizionare case mobili o prefabbricate».
Qual è stato il percorso successivo?
«Col tempo, le famiglie sono cresciute e sono stati fatti miglioramenti alle case, che ora hanno un valore economico. Altri vivono in case mobili, molto belle. C’è chi ha fatto domanda per le case popolari, ma sono pochi perché questa è una comunità che nell’arco di 25 anni si è allargata: oggi è composta da un’ottantina di famiglie (240 persone, di cui un centinaio di bambini – ndr) che si conoscono e hanno rapporti di parentela».
Come comunità cosa chiedete?
«Chiediamo di considerare un valore il fatto che ci siano case con qualità di vita dignitosa. E di rispettare la volontà di chi desidera vivere nella propria comunità. Qui le persone – tutte di nazionalità italiana con residenza a Milano – hanno fatto un percorso tale da agire responsabilmente e di godere di autosufficienza economica. Da un nostro censimento sull’inclusione lavorativa risulta che ci sono partite Iva, guardie giurate, meccanici, chi ha accordi con i cantieri e per la raccolta di ferro. C’è chi organizza matrimoni, chi si occupa di catering o ha un negozio di estetista. Molte donne si sono iscritte autonomamente nei Centri per l’impiego. Dunque, andremo a proporre al Comune di Milano un progetto di trasformazione del campo in un’area residenziale del quartiere concessa alla cooperativa di abitanti.
Noi comunque accettiamo ogni tipo di miglioramento dell’accordo, perché molti sono stanchi di vivere da anni in attesa di uno sgombero senza sapere dove andranno a finire. Di certo non si possono demolire case, che sono costate in termini di valore economico e affettivo, per poi far traslocare le stesse persone negli alloggi Aler, sorpassando migliaia di cittadini milanesi in lista d’attesa da anni perché non hanno una casa!».
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Lettera del Villaggio delle Rose al consiglio comunale
l Villaggio delle Rose è considerato un simbolo per la vicenda dei suoi abitanti: qui c’è il primo monumento in pietra in Italia sul genocidio di rom e sinti, il Porrajmos, per ricordare i parenti vittime del nazifascismo e i partigiani rom e sinti che hanno partecipato alla liberazione del Paese. Per loro il 27 gennaio è una data importante che commemorano con l’Anpi, il Municipio 5 e diverse associazioni.
Come spiegano nella lettera letta in Consiglio comunale dalla consigliera Simonetta D’Amico, la data li riporta “alla fuga in Italia dalla Croazia nel 1939 per sfuggire agli ustascia, all’internamento nei campi fascisti della Sardegna e, dopo la Liberazione, all’arrivo negli anni Settanta a Milano” che 25 anni fa ha dato loro un posto nel quale costruire case e allevare i figli.
“Noi abbiamo dedicato tutte le nostre risorse a questo progetto perché vi vediamo una prospettiva di certezza per le nostre famiglie. Sappiamo che non siamo tutti santi, come nessuno d’altra parte, ma in questi anni come cittadini milanesi abbiamo partecipato alla vita civile, al dibattito pubblico con le nostre associazioni, nei progetti di inclusione promossi dall’amministrazione, nel voto per il governo di questa città”. Agli amministratori chiedono di affrontare insieme il futuro dei loro figli, “progettando la presenza della comunità sul territorio in modo nuovo, superando pratiche assistenziali; un modo fondato sulla nostra responsabilità per il futuro della nostra comunità”.
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