La morte di Ramy, le successive violenze e il conseguente circo mediatico hanno posto in queste settimane il quartiere sulla ribalta nazionale, generando fiumi di parole e molte strumentalizzazioni. Un clamore che ha pressoché dimenticato di ascoltare i giovani che, nel bene e nel male, sono i protagonisti di questa tragica vicenda, con le loro paure, accuse ma anche speranze di cambiamento.
A tre settimane dalla morte di Ramy Elgaml, l’eco nazionale della tragica vicenda che ha portato il Corvetto sulla ribalta nazionale è sempre più debole. Dopo il clamore mediatico il pericolo è che le dichiarazioni di principio, le analisi sociologiche e i buoni propositi svaniscano nel nulla, lasciando in circolo solo le tossine delle polemiche politiche strumentali, sempre pronte a riaccendersi al primo tragico fatto di cronaca, quando di nuovo si tornerà a parlare del Corvetto o di qualche altra periferia.
Al centro di questa scena i giovani protagonisti delle recenti vicende del Corvetto osservano muti quello che accade intorno a loro. Diffidenza e scetticismo sono gli atteggiamenti prevalenti, accompagnati da flebili richieste di aiuto.
Le testimonianze
Mohammed e Patrick, due ragazzi che abitano in via Mompiani, ricordano così quel giorno: «Eravamo con i fra’ (gli amici – Ndr) alla panchina e abbiamo sentito parlare della morte di Ramy. All’inizio non credevamo fosse vero. Quando abbiamo avuto conferma che era morto, siamo rimasti. Alcuni pensano che gli sbirri abbiano esagerato, altri che Ramy se la sia cercata e che scappando qualcosa doveva pur averla fatta. Ma il punto, fra’, è che è crepato, capito?».
Alla domanda su quale sia la condizione giovanile al Corvetto, il quadro che emerge è desolante: «Qui non è mai facile. Viviamo tra la scuola, la strada e la mancanza di soldi. Per questo a volte si finisce per fare cose che non dovresti, senza pensarci troppo. Io spero che le cose cambino». Poi l’appello: «Non tutto è come sembra. Non siamo tutti uguali e non dobbiamo essere giudicati solo per dove viviamo o per gli errori commessi».
Felpa scura, cappuccio tirato sul volto, sguardo basso, L.C. aggiunge: «Ci avete dipinto come una zona non sicura. Io ho 17 anni. Ho frequentato in Italia le scuole dalla seconda media. Ora faccio un corso di formazione professionale. Non so scrivere né leggere bene in italiano, ma negli articoli usciti ci sono diversi pregiudizi sulle periferie. Il Corvetto è molto migliorato con verde, zone in cui possiamo incontrarci come vicino a via Mincio dove c’è anche un’area con tavolo da ping pong del Comune. Riguardo la morte di Ramy l’unica cosa che vogliamo è che si approfondiscano i fatti: è sbagliato scrivere che non si sono fermati, è sbagliato che non avevano il casco; però a volte noi abbiamo paura a fermarci; abbiamo paura delle divise».
Ha i capelli ricci, due occhi marroni che nasconde sotto un velo e M.S. con voce flebile domanda: «Non metterà il mio nome vero nel suo articolo? I miei familiari non vogliono che parli con estranei e, dopo le medie, mi rimanderanno in Algeria, devo sposare un tizio che neanche conosco. Ho frequentato in Italia dalle elementari alle medie, adesso sto facendo un corso per diventare estetista. Noi ci sentiamo sempre a disagio: da un lato le nostre famiglie che spesso non parlano una parola di italiano, molto legate alle tradizioni del nostro Paese d’origine; dall’altro noi che quando andiamo a scuola, ci guardano male, ci dicono che puzziamo, che se stiamo in silenzio in classe ci danno la sufficienza. Se abbiamo dei problemi siamo soli perché non ci capite né voi né i nostri genitori e siamo sempre arrabbiati per questo, fra’, hai capito?» e se ne va dicendo un paio di parolacce non si capisce a chi indirizzate.
Pantaloni bassi, mutande a vista, sigaretta all’orecchio spenta, ma pronta ad accendersi come lui che sbuffa, si avvicina e mi dice: «Ma che cxxxo vuoi anche tu? Venite qui, fate due domande e pensate di poterci giudicare! La mia scuola non serve a niente; non capisco bene l’italiano come lingua, ma gli italiani sì. Siete persone paurose, state nel vostro brodo, fate finta di aiutarci, ma fondamentalmente non ve ne frega niente; basta che non stiamo sotto casa vostra. Cosa vuole sapere dell’incidente? Io non ne so nulla, ma mi piace fare casino e far sentire che esisto e per questo abbiamo bruciato un po’ di cose e scritto sui muri, ma diversi non erano della nostra zona quella sera, però, fanculo, ci siamo divertiti a sentirci padroni della strada per una sera».
Marilena Giglietti del Comitato di quartiere Mazzini Corvetto, ci spiega «Dove c’è il degrado i ragazzi si adeguano. Sono anni che con altri cittadini cerchiamo di fare qualcosa nel quartiere, perché dopo le medie questi ragazzi si perdono. Fino a quando hanno l’età dell’oratorio, anche se musulmani, ci vanno per giocare a calcio e stare con gli altri. Poi se non vanno in una scuola superiore non fanno più niente, non hanno prospettive e diventa drammatico coinvolgerli. Si formano bande di sudamericani, nordafricani e italiani, talvolta anche tutti insieme. Alcuni iniziano a spacciare: si mettono sulla piazza, davanti ai bar o davanti ai negozi di alimentari etnici. È il vuoto che li assorbe. Bisogna trovare qualcosa da fargli fare, ma ci vogliono volontà e soldi».
Poi, da rappresentante del Comitato di quartiere, un’accusa ad Aler: «I palazzi devono essere sistemati, sono così fatiscenti che chi li accetta non può che essere una famiglia disperata, altrimenti cercherebbe un posto migliore per vivere. Qui la casa popolare è la casa per gli indigenti e i miserabili, ma non è così che funziona. Qui ci sono anche persone con una dignità che vogliono che il quartiere cambi. Siamo arrabbiati».
Parla Stefano Bianco – Presidente del Municipio 4
«Per cambiare ci vuole il contributo di tutti»
«Il tessuto sociale del Corvetto è ricchissimo di soggetti, dalle tante associazioni agli oratori, che insieme a noi si danno da fare per migliorare il quartiere. Dipingerlo come un luogo senza speranza, abitato da delinquenti, fa un grave torto alle brave persone che lo vivono e che sono la maggioranza.
Come Municipio 4 siamo perfettamente consapevoli dei problemi esistenti in questo contesto. Per quanto possibile, con le nostre competenze e risorse, da quando ci siamo insediati proviamo a dare risposte concrete, in particolare ai giovani, direttamente o interpellando gli altri attori presenti e le varie componenti dell’Amministrazione. Il 20 novembre scorso abbiamo organizzato una marcia della pace per le vie del Municipio con arrivo in piazza Gabrio Rosa. Hanno partecipato circa mille e 500 studenti. Il 5 e 6 ottobre, sempre in piazza Gabrio Rosa, insieme alle associazioni, abbiamo organizzato una due giorni di sport e aggregazione, che ha visto una partecipazione altissima. Detto questo, siamo però altrettanto consapevoli del fatto che sul Corvetto e sul quartiere Mazzini, come in altri quartieri difficili della città, la risoluzione dei problemi non può prescindere da una azione congiunta e coordinata di tutte le istituzioni di ogni livello, incentrata su tre grandi nodi: sicurezza e legalità, istruzione e opportunità di lavoro, riqualificazione degli alloggi popolari e contrasto dell’abusivismo».
Le proposte dell’associazione Dare.ngo
di Stefano Ferri