Michele Mozzati, autore televisivo, fondatore di Zelig con l’amico Gino commenta la kermesse sanremese: vincitori, sconfitti, pubblico e quella volta che nel 1989 con Grillo… Viva Sanremo. E abbasso
A vedere le immagini della proclamazione del vincitore di Sanremo 2025 c’è da prendere atto che l’Italia è quella che vuole essere e mai quella che qualcuno (minoranze?) vorrebbe che fosse. Va per i fatti suoi, al di là dei premi della critica. Abbiamo sul palco l’immagine del primo e del secondo. Il secondo, appunto, è Lucio Corsi, che mi ha fatto sperare e godere in questi giorni, e resta l’impossibile ritratto di un’Italia che non vuole essere nella sua maggioranza: magico, poetico, trasgressivo almeno un po’, non catalogabile mai del tutto. Provinciale (toscano di mare) e internazionale (le Cirque de Soleil). Bellino ma con i denti “a spazzola”, fragile ma per niente arrendevole, pesce fuor d’acqua a Sanremo ma imprevisto polistrumentista. Uno che nella serata dei duetti-cover (la più bella del festival) decide di prendersi la responsabilità di portare come pezzo la canzone più incantabile, all’Ariston, del repertorio nazionale. Cioè la mitica Nel blu dipinto di blu, che dopo O sole mio è la più conosciuta al mondo e che a parte qualche folle altro tentativo da tournée giapponese, in giro per l’Universo è stata proposta solo dall’immenso autore Domenico Modugno e da gente tipo Dean Martin, i Gipsy King, David Bowie (e mi pare forse Vasco Rossi e Gianna Nannini, che sono re e regina del rock italiano). Lì, a cantare in duetto con lui, Lucio Corsi ha chiamato Topo Gigio. Un genietto. È stata la cosa più divertente e anche romantica di tutte le serate. Non ci si inventa artisti a tutto tondo, lo si nasce; anche nelle scelte come questa.

Il vincente-perdente, dicevo, è Lucio Corsi, che si è piazzato dietro al vincitore Olly mi pare solo per uno 0,4% in meno. Mi auguro che la sua per nulla banale Volevo essere un duro abbia successo.
E invece il vincente vero, Olly (con Balorda nostalgia), è un ragazzone un po’ imbambolato, lì a Sanremo, che appena vinto ha salutato genitori “…papà, mamma… è successo!”, da italiano vero. Una cosa spontanea e per questo perfettamente in linea. Ci dicono sia uno tra trap e rap, ma sono troppo in età anche solo per andare a controllare se è una balla o no. E in un’Italia che vorremmo esportare (e a volte ci riusciamo) con abiti di grandi sarti, dagli infiniti strascichi, questo Olly se ne esce sul palco da vincitore: camicia sbottonata e a vista maglia della salute bianca, direi canotta, con catenina della prima comunione al collo.
Olly di cognome fa Olivieri, pensa te che gruppo creativo alle spalle. Federico Olivieri, da Genova, però pare un bravo ragazzo, di quelli che piacciono alle mamme. Va bene così.
Non è obbligatorio amare il Festival di Sanremo e neppure guardarlo alla televisione. Ma guardarlo aiuta. Vale a dire che ci fa capire un po’ di più chi siamo davvero.
La canzone di Olly è normale, né bella né brutta. Per questo ha vinto. A questo proposito vorrei, però, dopo aver parlato di cantanti, sottolineare una cosa.
Nei decenni abbiamo trasformato il Festival della Canzone Italiana nel festival dei cantanti italiani. Occorrerebbe ricordarci ogni tanto che nel 1951 il festival nasce appunto come Festival della Canzone Italiana: dove di dovrebbe decidere qual è la canzone più bella e non la cantante o il cantante più bravo, più figo, meglio vestito, più traditore o più tradito da fidanzate, mogli, mariti vari. Ma ormai non è più così da tempo. Amen.
È domenica mattina. Ieri, sono stato a cena fuori, apposta per non vedere l’ultima serata se non nell’ora finale, dopo averne viste tre – mercoledì, giovedì, venerdì – e essermi convinto di una serie di cose.
Conduzione noiosa, ma tant’è, pare d’obbligo. Co-conduzioni con una strepitosa e commovente, per me, Bianca Balti. Ci ho lavorato (poco) insieme: è una bella persona, molto dolce, disponibile e ”normale”. Una ragazza di Lodi cresciuta da ragazzina nei centri sociali e divenuta come in un sogno la modella italiana più famosa di sempre. Le auguro tanta serenità e forza nel difficile percorso di vita che sta facendo in questi mesi. Geppi Cucciari, altra bella scelta. Ha iniziato con noi a Zelig e il cabaret di viale Monza, dove ha incominciato, resta la sua storica casa. Le voglio molto bene come persona, come conduttrice e come comica. Sua la battuta più bella del festival in chiusa alla presentazione del gruppo formato da Shablo, Guè, Joshua e Tormento: “…Tutta gente senza onomastico”.
Sono contento di aver rivisto Benigni sul palco. E anche per alcune cose che ha detto.
La qualità delle canzoni nelle serate: abbastanza modesta, ma questo da sempre. Avrei voluto maggior considerazione per Giorgia, ma poi, visto che la sua canzone era sufficiente ma non strepitosa, vale anche per lei che il festival è “della canzone” e non “dei cantanti”. Quindi forse è giusto il posto in classifica tra le prime dieci ma non tra le prime tre, come è giusta l’ovazione tributatele dal teatro Ariston.
Già, il pubblico dell’Ariston. A parte questa cosa di Giorgia, devo dire che per esperienza personale non ho una grande considerazione della gente che segue dal vivo in teatro le serate di Sanremo. Sono stato al festival nella mia vita due volte, per lavoro. Una come giornalista e una come co-autore (con Michele Serra e il mio socio Gino) del famoso monologo di Beppe Grillo, quando faceva ancora solo il comico. Era il 1989. (per chi lo volesse vedere). La tensione, le emozioni, l’adrenalina di Sanremo non si riescono a spiegare. Nell’insieme una grande esperienza.
Ma il pubblico, di quel teatro… beh, lasciamo perdere.
Godiamoci il Festival di Sanremo per quello che è: una contraddizione “in seno al popolo” necessaria e tutto sommato godibile nel bene e nel male. Perfino questo pubblico che magari compra i biglietti al mercato nero pur di esserci e farsi vedere. Viva Sanremo. E abbasso.
Michele Mozzati