Peter Stein ha ragione: dopo oltre sessant’ anni, Il Compleanno di Harold Pinter (che il drammaturgo londinese, Premio Nobel per la Letteratura nel 2005, scrisse a soli 27 anni, nel 1957 perché “non aveva nulla da fare”), conserva intatto il suo effetto enigmatico e inquietante. Capace per questo di creare spiazzamento nel pubblico, anche quando ride.
Irritante, molesto, estenuante. Uno spettacolo Iin cui si fondono teatro dell’assurdo, atmosfere kafkiane e toni comici. Da una parte il tran-tran di tutti i giorni. Dall’altra la sensazione di una minaccia incombente, senza nome, di qualcosa che sta per accadere o che potrebbe accadere e che turba, perché non si riesce a razionalizzarla. I protagonisti entrano in scena da un luogo imprecisato, portandosi dietro un passato misterioso. Inizialmente si tenta di capire, di seguire una logica plausibile, possibile. Si ride anche. Poi si abdica alla propria ragione e ci si abbandona alla implacabile verità dell’assurdo. Anche perché nulla viene veramente precisato nella trama di Pinter: non fornisce alcun dato certo sulla storia dei personaggi.
Dopo il successo nella scorsa stagione, ritorna al Menotti (fino a domenica 19 novembre) Il Compleanno con la regia di Peter Stein, classe 1937 (ormai italiano d’adozione visto che vive in Umbria nelle campagne di San Pancrazio, in provincia di Terni e ha sposato l’attrice Maddalena Crippa). Splendido e affiatato cast, un gruppo ben rodato che da anni lavora con Stein, a cominciare da Maddalena Crippa per passare a Alessandro Averone, e poi a tutti gli altri: Gianluigi Fogacci, Fernando Maraghini, Alessandro Sampaoli, Emilia Scatigno.
La scena. Un soggiorno casalingo dalle pareti colorate di verde. Si intravede la cucina da cui entra ed esce Meg, (Maddalena Crippa), casalinga stralunata, perennemente indaffarata a preparare un’eterna colazione a base di corn flakes, per il marito Petey Bowles (impersonato da Fernando Maraghini) che seduto al tavolo legge il giornale con aria rassegnata, risponde alla moglie sulle previsioni meteo e i piccoli fatti di cronaca, come ogni mattina, prima di uscire ad affittare sedie a sdraio sulla passeggiata a mare. I due gestiscono una piccola pensione che “è sulla guida” come ripete ossessivamente Meg fin dalla prima scena, in una cittadina sulla costa inglese. Attendono che scenda il giovane Stanley Webber, (Alessandro Averone), unico ospite che vive (o si nasconde?) da mesi nella pensione, trascorrendo il tempo senza fare nulla, coccolato dalla proprietaria Meg, che lo vizia come un figlio ma anche con atteggiamenti seduttivi, che fanno intuire un’attrazione nascosta. Stanley appare col pigiama sporco e l’aspetto trasandato, di lui non sappiamo nulla, forse un ex pianista.
Il tono è ancora farsesco, ma lascia trapelare qualcosa di stonato. La placida quotidianità dei tre s’incrina quando arrivano alla pensione due misteriosi figuri, di cui non si conoscono bene ragioni e intenzioni, provenienza e destinazione, Goldberg (Gianluigi Fogacci) e il ruvido McCann (Alessandro Sampaoli). Vestiti di nero un po’ alla Blues Brothers, non si sa da dove arrivino, però diventa subito chiaro che sono lì per Stanley, forse sicari di una misteriosa organizzazione, forse poliziotti o infermieri venuti per riportarlo in manicomio. Entra una ragazza Lulu (Emilia Scatigno), ingenua ma non troppo. È la sua fidanzata? È un’amica? Persino un regalo fatto a cuor leggero da Meg incute una pesantezza strana. Un tamburo che nessuno sa suonare, e che più tardi quella sera sarà distrutto dal festeggiato stesso, che non rammentava nemmeno di essere nato in quel giorno.
Durante i festeggiamenti tutto precipita. Meg si mette il bel vestito giallo che le aveva regalato suo padre e che la faceva sentire la più bella del ballo, danza e si ubriaca. Lulu viene sedotta da Goldberg e Stanley tenta di strangolare Meg. Improvvisamente le luci si spengono. Poi si riaccendono. Atto terzo. La scena finale è come la prima. Meg prepara il breakfast come nell’incipit della pièce , ripete le stesse petulanti domande al marito ed esce per fare la spesa, mentre Petey legge il giornale. Stanley scende giù, con due grossi lividi sotto agli occhi. Irretito e ridotto in uno stato catatonico, viene portato via dai due figuri nerovestiti, verso uno sconosciuto destino. Mentre Petey continua a leggere il suo giornale, imperterrito e indifferente e gli sussurra “Non lasciare che ti dicano loro cosa fare”. Tutto il trascorso è dimenticato, l’ordine viene ricostituito.
Uno spettacolo da ricordare. E quella sensazione anche fisica, di minaccia che ti resta incollata per un bel po’, ce la portiamo a casa, con un senso di smarrimento. Quella sensazione di essere sotto assedio e senza via di scampo, collegando quel mondo di settanta anni fa agli incubi della nostra epoca: la pandemia, la guerra, la minaccia delle armi nucleari, la crisi energetica, i cambiamenti climatici, l’odio che permea i rapporti umani. Stanley è uno che lotta fino alla fine per non entrare in questa omologazione assoluta. Il dissidente è silenziato. Ma anche noi siamo ridotti al silenzio, forse più del protagonista de Il Compleanno. Ed è pazzesco che questo aspetto Pinter lo abbia visto già più di sessant’anni fa’. Non era facile trovare chi investe in un progetto del genere oggi, “che costringe a entrare nelle chiuse stanze dell’oppressione”, questa la motivazione dell’Accademia di Svezia al conferimento a Pinter del Nobel per la letteratura del 2005. Complimenti dunque al Menotti, teatro che solo pochi anni fa rischiò di diventare un garage di condominio e che invece oggi – sotto la direzione artistica di Emilio Russo e di Enza Pineda, presidente della compagnia Tieffe, e grazie al conte mecenate ultranovantenne Filippo Perego di Cremnago (che ha comprato lo stabile, offrendo gli spazi in comodato gratuito per 4 anni alla compagnia) ha uno dei migliori cartelloni della stagione milanese.
Intervista a Maddalena Crippa, la Meg de Il Compleanno
A fine dello spettacolo disponibile e accogliente, Maddalena Crippa sorride, in tanti si avvicinano per salutarla e complimentarsi per l’interpretazione. Sguardo luminoso e profondo che abbatte le distanze alla prima stretta di mano, accetta di rispondere volentieri a qualche domanda.
Attrice dal temperamento incendiario, ti troviamo in un ruolo insolito.
«Sì, effettivamente non ho fatto tanti ruoli comici, per questo è stato un grande piacere calarmi in questa parte. È stata anche una grande liberazione per me. Io all’inizio non sono assolutamente truccata, con un vestitino da zittella. Meg è una casalinga, un po’ svaporta (ride di gusto. –Ndr) che vive nel suo mondo, passa attraverso le vicende che capitano in casa sua senza capirci molto.Sembra sempre che tutto quello che le accade intorno le sfugga, non la tocchi, ma in realtà è portatrice di una comicità schietta e paradossale».
Una Meg dallo spiccato accento milanese.
«Sì, le ho dato certe sfumature di accento lombardo, quello delle mie origini, (Maddalena Crippa è nata a Besana Brianza – Ndr). Una lingua sbrigativa, diretta, pratica. Un colore. Inconfondibile».
È raro trovare un gruppo teatrale così affiatato, così potente sul palco.
«Tutto ciò che si vede in scena, dal ritmo serrato ai cambi di “clima” è il risultato di uno studio attento. È “il metodo” Peter Stein: abbiamo questo luogo in Umbria, San Pancrazio, un borgo medievale abbandonato che abbiamo restaurato e che ci consente qualcosa che adesso è negato: la comunità. Abbiamo provato là, in un mese e mezzo, Il Compleanno, convivendo con il cast a colazione, pranzo e cena. Intorno, solo campi e bosco. E, alla fine, è questa la magia del teatro: quando ci mette in relazione. Lo scatto che lega attore e pubblico. Il teatro è il luogo in cui sviluppare la nostra dimensione umana. Continuo a crederlo. In questo momento più che mai. Il teatro è relazione. La gente ha bisogno di incontrarsi, di stare insieme per condividere speranza, sogni, voglia di libertà».
Che lavoro è stato fatto da Peter Stein?
«Un lavoro di fedeltà assoluta a Harold Pinter. Stein ha una capacità incredibile di lavorare al servizio dell’autore, facendolo brillare».
Si può far fatica a capire il testo.
«Il testo è complicato. Molte parti rimangono anche un po’ oscure. Pinter non è certo un autore consolatorio o catartico, ma uno di quelli che ti leva la terra sotto i piedi. Non spiega nulla. E non concede nulla al pubblico, ripeto, spiazza lo spettatore e se vogliamo lo disorienta. Più cerchi di capire e di dare un senso logico ai fatti, più il testo ti butta fuori».
Certo è che questo spettacolo non lascia il pubblico rilassato. Pinter e Stein ci mandano a casa con una strana ansia.
«Perché il testo è profondamente, sconvolgente, anticipatore di tante tematiche attuali. Vedi concretamente come certi meccanismi di controllo e di minaccia, di cui il grande autore inglese parlava ormai tanti anni fa, sono esattamente quelli in cui siamo in qualche modo ancora rinchiusi noi oggi. Per questo è importante che la gente veda questo lavoro. Perché è un periodo in cui non si può stare tranquilli. Con la paura e con il controllo grazie anche alle tecnologie, si cerca di spegnere le soggettività, controllare persino i nostri pensieri più intimi e privati. Diceva Pinter “La vita di ognuno di noi è sempre minacciata e incerta. Viviamo nella repressione e fingiamo di vivere nella libertà” Il Compleanno è “specchio nel quale chi ne ha il coraggio si può guardare”».
Quando vi rivedremo ancora Milano?
Torneremo al Teatro Menotti dal 23 maggio a| 9 giugno con “Crisi di Nervi”, tre atti unici di Anton Cechov, scritti tra il 1884 e il 1891, pieni di tagliente ironia. Stein ha scelto L’orso (interpretato da Maddalena Crippa, Carlo Bellamio e Alessandro Sampaoli – Ndr), I danni del tabacco (con Gianluigi Fogacci – Ndr) e La domanda di matrimonio (con Alessandro Averone, Fernando Maraghini ed Emilia Scatigno – Ndr) Lo stesso Čechov non ancora trentenne definiva questi atti unici scherzi scenici. in chiave di vaudeville.
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