Ultimi giorni per ammirare le opere dei dieci finalisti della II edizione del Mellone Art Prize, il premio di pittura organizzato dalla Fondazione Dario Mellone e dalla Fondazione Villoresi Poggi, per ricordare Dario Mellone (Bologna, 31 marzo 1929 – Milano, 18 dicembre 2000), pittore, scultore, rappresentante della Neoavanguardia e per 30 anni grande disegnatore-giornalista del Corriere della Sera.
La sede che ospita l’esposizione delle opere degli artisti – che sono: Ludovico Bomben, Angelo Brugnera, Paolo Cavinato, Giulia Dal Monte, Francesco Fossati, Vincenzo Frattini, Siyang Jiang, Vincenzo Merola, Giovanna Strada e Federica Zianni – è la prestigiosa Sala del cenacolo del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, l’antico refettorio del complesso monumentale del monastero Olivetano di San Vittore. Qui, lunedì 13 alle ore 18,30, saranno premiati i tre artisti che meglio hanno affrontato il tema del concorso, che quest’anno è Atomic Art, un invito a interpretare le problematiche e gli scenari disegnati dalla scienza, secondo le intuizioni dell’Arte contemporanea.
È possibile visitare la mostra durante gli orari di apertura del Museo (venerdì, 9.30 – 17.00; sabato e domenica, 9.30 – 18.30) con tariffa ordinaria di ingresso.
Nell’ambito delle iniziative per celebrare la figura di Dario Mellone, dopo la II edizione del Mellone Art Prize, nei prossimi mesi si terranno una mostra delle opere dell’artista e la presentazione del libro Dario Mellone, da Milano alla Luna, a cura di Andrea Ciresola, Saverio Paffumi e Valerio Vigorelli. Nel libro sono raccolti tre decadi di illustrazioni che Mellone realizzò per il Corriere della sera, accompagnati dai commenti dei protagonisti di quegli anni.
La prefazione di Ferruccio de Bortoli al libro “Dario Mellone, da Milano alla Luna”
La città di Mellone continua a salire
L’affettuoso ricordo di uno dei più prestigiosi e autorevoli giornalisti italiani, che ha mosso i primi passi della sua carriera proprio nella “bottega” del Maestro
di Ferruccio de Bortoli
Io non so disegnare. E, dunque, per una strana casualità della vita, mi ritrovai nei panni troppo larghi di “secondo” di un grande disegnatore e raffinato artista come Dario Mellone. Ero senza arte né parte ma con una gran voglia di collaborare in qualche modo al “Corriere”. Mi applicai nel fare, bene o male, delle cartine, assai sempliciotte, che mi auguro nessuno vada mai a riprendere nell’archivio del giornale. Mi arrangiai. Però devo a quelle cartine un po’ scamuffe, come si direbbe oggi, e alla benevolenza affettuosa di Mellone, se sono riuscito a entrare nella redazione del quotidiano di via Solferino, a percorrere quei corridoi austeri che poi sarebbero stati, per un arco di tempo superiore a quarant’anni, la mia casa, la mia vita.
Mellone era consapevole dei miei limiti. Mi prese in simpatia. Forse apprezzava la totale disponibilità, giorno e notte, a svolgere la funzione di suo vice per i lavori umili: le piantine con le vie e le piazze scritte con abbondante uso di Letraset (mentre il titolare realizzava tutto a mano e mi stupiva per la facilità con cui scriveva in negativo). E a correre all’impronta appena le varie redazioni avessero avuto qualche necessità. Lui, dopo tanti anni, pur avendo un religioso senso del dovere e abitando a un tiro di schioppo da via Solferino, si era un po’ stancato. Ricordava che una volta in vacanza – i telefonini non c’erano – si vide arrivare in albergo i carabinieri. Lo cercavano con urgenza. Ma per conto di Franco Di Bella, allora mitico caporedattore centrale del “Corriere”, che aveva bisogno di lui. E un’altra volta si trova a incrociare l’auto sulla quale viaggiava lo stesso Di Bella che si sporse dal finestrino e gli gridò: “Mellone, ho bisogno di lei!”. Insomma io fui – con mia grande soddisfazione – anche un piccolo scudo tra Mellone e lo stesso “Corriere”. E così esordii con una mia cartina persino in prima pagina. Ovviamente non firmata. E quando siglai il mio primo pezzetto di cronaca, qualche giorno più tardi, mi fecero osservare che non era il caso di farlo con le iniziali del direttore, Franco Di Bella.
Mellone voleva dedicarsi, anima e corpo, alla sua grande passione: la pittura. Un amore solitario e totale. Quando lo andavo a trovare non era raro che mi intrattenesse sulle sue prime opere. Me le spiegava con dovizia di particolari uscendo per un attimo dal carattere timido e riservato. Sua moglie, persona straordinaria, di rara dolcezza, ci guardava, custodendo la bellezza di quei momenti nei quali vedeva il marito orgoglioso e contento delle proprie opere. Quando ne parlava era come se diventasse più giovane e uscisse dall’isolamento del suo studio, attiguo alla casa. Forse troppo vicino.
Il tutto, devo dirlo con sincerità, mi parve più volte simile a una prigione. Come se Mellone avesse deciso, anche in polemica con la sottovalutazione della sua opera pittorica, di isolarsi. Via San Marco 12, nel cuore di Brera, era una sorta di eremo. Le opere erano tante, sembravano affastellarsi l’una sull’altra. Ricordo che un giorno mi parlò a lungo di Jasper Johns, dell’espressionismo americano, e di come alcuni temi lui li avesse anticipati. E del conseguente timore di passare che uno dei tanti seguaci dell’artista statunitense. Non ho competenza per giudicare l’opera artistica di Mellone, anche perché l’affetto e la riconoscenza sono infiniti, ma devo dire che il segno contemporaneo del suo tratto era visibile e oggi assume anche un aspetto profetico. Il rapporto uomo e tecnologia, la solitudine della connessione. All’epoca la rivoluzione digitale non faceva parte nemmeno delle intuizioni degli scrittori di fantascienza. Ma gli artisti sono capaci di cogliere i semi nascosti della vita che germoglieranno in futuro. I segni del tempo che verrà.
Nelle sue illustrazioni per il “Corriere”, nelle sue cartine, tutte a mano con la china che gli sporcava perennemente le mani, c’erano invece i segni della quotidianità. I luoghi e i fatti di cronaca ma anche la descrizione di una città che saliva, espressione alla Boccioni, che saliva anche grazie al tocco artistico e artigianale di un milanese schivo e appartato.