Quanta leggerezza e divertimento in questo gioco amoroso fatto di corteggiamenti galanti, in cui pudore e malizia intrecciano dialoghi vaporosi, fraintendimenti, sospiri, modi garbati, schermaglie fra innamorati. Che delizia quei ventagli blu e rossi che si aprono, si chiudono, si alzano, si abbassano, per incoraggiare o respingere, per manifestare desideri nascosti o imbarazzo, per attirare sguardi e attenzioni.
C’è tutto l’elegante ironia del geniale Marivaux nell’arioso allestimento per Manifatture Teatrali Milanesi di Antonio Syxty (con una nuova traduzione di Michele Zaffarano dal testo francese originale) Il Gioco dell’Amore e del Caso, capolavoro dal meccanismo perfetto di Marivaux (Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux, Parigi 1688-1763). Un grandissimo e pressoché sconosciuto in Italia al grande pubblico, autore di una commedia che a distanza di quasi trecento anni dalla sua scrittura e prima rappresentazione nel 1730 ancora affascina, cattura e diverte. La prima al Teatro Litta di Milano era superaffollata di giovani e il successo è stato brillantissimo.
Forse proprio perché oggi il marivaudage, l’intreccio amoroso elegante e raffinato, improntato sull’ironia e la leggerezza, è passato di moda e il corteggiamento non esiste quasi più, in un’epoca in cui uno “sguardo” è stato sostituito dal “visualizzato”, un “mi piaci” si è trasformato in un like ad una foto; un “ti amo” sussurrato all’orecchio della persona amata si è ridotto ad un misero cuore o sticker su WhatsApp, siamo presi da incantamento per questo mondo perduto fatto di gesti, sguardi e ammiccamenti, le mille sottigliezze dell’amore, le sue metamorfosi, i sussulti, i timori e gli entusiasmi, l’urto dei sentimenti con le convenzioni sociali, fra travestimenti, inganni ed equivoci. Quasi come dentro la musica giocosa di Mozart.
«Avevo affrontato questo copione nel 1998 e poi in un riallestimento nel 2001. A distanza di molti anni il mio incantamento nei confronti di questo testo risiede ancora nel comportamento che decidiamo di giocare, di mettere in atto, nel nostro presente in un contesto sociale, politico, sentimentale – racconta il regista Antonio Syxty -. Perché non possiamo uscire dai ruoli che ci siamo definiti o che abbiamo assunto per mascherare il vero? Quando mascheriamo il vero che cosa è vero di ciò che scegliamo di comunicare?».
Marivaux scriveva: “Ho spiato nel cuore di tutti i ripostigli in cui si può nascondere l’amore quando teme di farsi vedere. Ciascuna delle mie commedie ha lo scopo di obbligarlo a uscire da uno di quei ripostigli”. L’autore francese forniva così una puntualissima indicazione di lettura. L’osservazione precisa e squisita del sentimento d’amore è infatti una delle caratteristiche più evidenti del suo teatro. Nel suo sorgere o nelle sue metamorfosi, l’amore urta le convenzioni sociali e mondane, e smaschera le contraddizioni dei personaggi, divisi tra l’essere e l’apparire, la verità e l’inganno; mostrano, nello scontro tra ragione e passione, l’essenza di una natura umana vacillante, incerta, piena di perplessità e interrogativi.
Trama, regia e costumi
In questa commedia, tutto ha inizio quando Silvia, la giovane figlia del nobile Orgone, decide di travestirsi con gli abiti della sua cameriera Lisetta, per poter osservare di nascosto il suo promesso sposo Dorante, che lei ancora non conosce. Ma anche Dorante, ha avuto la stessa idea: ha scambiato i suoi abiti con quelli del servitore per poterne valutare pregi e difetti con maggior accortezza. Fra schermaglie, battibecchi, Dorante si innamora di Silvia pur credendola una serva e Silvia si innamora di Dorante malgrado, ai suoi occhi, fosse un servitore. E la stessa cosa accade anche ai due servitori che recitano la parte dei padroni. La commedia si conclude come era prevedibile, con un doppio matrimonio tra Silvia e Dorando e tra Arlecchino e Lisetta. I valletti rimangono con i valletti ed i padroni con i padroni.
La regia di Sixty funziona a meraviglia (qualche forzatura gliela perdoniamo come l’idea del grosso cartonato di uno scimmione dal color fucsia che pende dall’alto con una maschera sugli occhi, che osserva le schermaglie amorose). Le scene procedono per battute brevi, serrate e vivaci.
Accurata la scelta dei costumi d’epoca di Valentina Volpi, con i sorprendenti copricapi sormontati dalla gabbietta degli uccellini in precario equilibrio (una ironica citazione delle altissime acconciature pullulanti di uccellini imbalsamati e piccole gabbie, create da Léonard, il suo parrucchiere personale, per la regina Maria Antonietta?). Di raffinata eleganza formale la geometria neoclassica della scenografia di Guido Buganza, ridotta all’ essenziale, esaltata dalle pennellate di luce di Fulvio Meli, che non vuole citare iconicamente il periodo storico, anche se il Settecento è uno sfondo presente, fatto di panchette e di morbidi tendaggi bianchi quasi trasparenti che scendono dall’alto. Un impianto scenico che rimanda a una forma di astrazione, accentuando la sensazione di essere in una sorta di “fuori luogo”, che è poi quello che accade con l’innamoramento che ci porta a uscire dalle maschere per mostrare invece la nostra anima più segreta e talvolta indicibile.
Cast e personaggi
Il cast vede cinque attori particolarmente in forma. Un convincente Francesco Martucci nel ruolo di Dorando, con un’interpretazione calibratissima, tra una fisicità sensuale e una ingenuità disarmante; un pirotecnico Filippo Renda, nel ruolo di Arlecchino, lasciato libero dalla regia di mettere in caricatura ma con indulgenza il suo personaggio. Francesca Massari fa della sua Silvia una giovane dama cui è offerta l’illusione di potere scegliere il proprio destino, ma amareggiata dal fatto di essersi innamorata di quello che crede essere un servo, piena di dubbi e ritrosie. Jasmine Monti è una Lisetta sempre empatica con il pubblico e abile nel sapersi adattare ai diversi stati d’animo richiesti dalla parte. Un plauso particolare merita il “veterano” Gaetano Callegaro con la bella e lunga capigliatura argentata, che si diverte con il personaggio di Orgone, padre di Silvia, il solo a essere al corrente di entrambi i travestimenti, ma non dice nulla, da gran burattinaio osserva indulgente e divertito, al pari degli spettatori, le pieghe impreviste del gioco amoroso che i quattro ragazzi recitano sotto i suoi occhi.
Insomma, la sensazione che si prova alla fine di questo “Gioco dell’amore e del caso” che conclude la stagione delle Manifatture Teatrali Milanesi, è di una leggerezza corroborante (di cui abbiamo più che mai bisogno) sempre garbata e piena di delicate sfumature, sostenuta da una “piccola”, semplice, utopia: la possibilità di liberarsi dalle maschere dell’Io (sociali e social) trasformati dall’amore. La più grande forza rivoluzionaria di cui l’essere umano dispone, capace di sovvertire ogni ordine precostituito. Si replica fino al 13 luglio.