«Sono stato fortunato: in un secolo di vita me ne sono successe di tutti i colori»

Personaggi – Intervista ad Angelo Pria, classe 1924, “milanese di Porta Romana”

Angelo Pria insieme alla figlia Giovanna.
Foto di Andrea Cherchi

Angelo Pria ha la bellezza di un secolo, vissuto tutto a Milano tra le vie Crema, Giulio Romano e Palladio, storiche vie della “Porta Romana bella, Porta Romana” cantata da Nanni Svampa e Giorgio Gaber. Classe 1924, ha ricevuto nel giorno del centesimo compleanno dal presidente del Municipio 5 Natale Carapellese la Civica Benemerenza, dal Presidente della Repubblica il diploma di Cittadino Onorario e dal Comune di Milano l’Ambrogino d’oro. Da bambino ha abitato in via Crema 21, al di là della ferrovia, «perché con la ferrovia finiva la città», dove c’erano la campagna e un grande stabilimento meccanico che era il Miani e Silvestri, diventato poi l’OM, e annesso infine alla Fiat.

Signor Pria, com’era Porta Romana quando era bambino?

«Era una zona di periferia, popolare. C’era il mercato sulle strade al venerdì, che esiste ancora oggi. C’era e c’è tuttora una chiesa, Sant’Andrea, che è stata costruita pochi anni prima che io nascessi. Gli uomini lavoravano quasi tutti in fabbrica. Le scuole sono ancora le stesse che ho frequentato e che adesso frequentano i miei pronipoti. Ricordo che da bambini la strada era nostra. C’erano carri agricoli, cavalli, poche auto, non c’erano grossi pericoli. Alla sera, dopo cena, restavamo in strada a giocare fino alle dieci. Il custode del nostro condominio sedeva di fianco al portone. Stava lì finché non era l’ora di mandare tutti a casa. C’era un solo pericolo: i Ghisa, i Vigili urbani, perché non volevano che si giocasse a palla in strada».

Dopo l’infanzia è arrivata la II Guerra Mondiale…

«Allora chiamavano a militare a 19 anni, il governo era fascista e nel 1943 ho ricevuto la cartolina di precetto. Prima avevo già frequentato il servizio premilitare, che consisteva in una preparazione ulteriore, oltre a quella che c’era nell’esercito, di due ore tutti i sabati pomeriggio per due anni… e lì era una barba tremenda! Bisognava imparare tutta la propaganda del fascismo e poi si trattava di marciare avanti e indietro. Fortuna volle che nel secondo anno l’istruttore cercava nuovi autisti, così mi proposi per andare a scuola guida all’Aci di Corso Venezia. Nel 1943 mi assegnarono al reggimento Savoia Cavalleria. Mi chiesi: “ma per guidare il cavallo ci vuole la patente dell’auto?”.

Mi presentai a Somma Lombarda e rimasi lì finché non fummo messi su un carro per scappare in Svizzera. Due anni, fino al 1945. Lavoravo come contadino, insieme a molti milanesi, anche della parrocchia di Sant’Andrea. Finita a guerra, quando sono tornato a Porta Romana, non riconoscevo più la mia via. Poi ho capito perché! Avevano tagliato tutte le piante per riscaldare le case. Per dire dove eravamo arrivati. C’erano però una gran voglia di fare, di ripartire, di ricostruire, ma anche molta fame e povertà. Nel primo periodo ci hanno aiutato molto i parenti materni di Mantova. Partivo col treno da Milano e tornavo con valige piene di cibo. Poi il Comune istituì delle cucine per la povera gente. Erano dei tendoni, con una caldaia e facevano la minestra tutti i giorni. La gente andava lì con il suo pentolino e tornava a casa».

Prima della guerra c’è stata la scuola.

«Finite le scuole elementari, i figli degli sciuri andavano al liceo. Noi no. Mio padre è stato lungimirante e mi ha iscritto a una scuola di avviamento professionale alla Società Umanitaria. Era una scuola all’avanguardia, con laboratori, dove i ragazzi venivano formati per andare a lavorare, lavoro che però, già allora, era un problema trovare».

Come ha iniziato a lavorare?

«Ricordo che mia mamma mi accompagnò nelle botteghe degli artigiani del quartiere a cercare lavoro. Iniziai come fattorino in una ditta. Poi, qualcosa di meglio è arrivato, per fortuna, perché un architetto che insegnava all’Umanitaria è venuto a cercarmi e mi ha assunto. Per me è stata una scuola di vita. Poi ho lavorato trent’anni per un ingegnere edile, che mi ha formato e aiutato molto. Lì, mi sono specializzato nel disegno, nelle costruzioni edili. Oltre che da lui sono stato anche a lavorare da Vittorio Korach, ingegnere, che è stato per tanti anni assessore ai Trasporti del Comune di Milano.
Ho lavorato fino a 80 anni, fra il lavoro in ufficio e il lavoro col tribunale. Sì, a 80 anni ho detto proprio “basta!”».

Non solo lavoro però, per anni è stato l’archivista della parrocchia di Sant’Andrea: come ha iniziato?

«Sant’Andrea ce l’avevo di fronte a casa e di fianco c’era l’oratorio, che ho frequentato da quando ero bambino. Lì mi sono occupato prima di tutto della manutenzione degli edifici perché c’era sempre qualcosa da fare, poi il parroco, un giorno, mi chiama e mi dice: “Guarda che nell’archivio storico ho trovato questo documento, prova a leggerlo”. Ecco, ho cominciato così e, oltre ai documenti di Sant’Andrea, ho trovato anche quelli della precedente parrocchia della zona, dedicata a San Rocco. Nella zona oggi occupata da viale Sabotino, piazzale di Porta Romana, corso Lodi e via Crema, c’era un grande cimitero. A quell’epoca la chiesa di Sant’Andrea non esisteva ancora, esisteva soltanto quella di San Rocco, che si affacciava lì su viale Sabotino.
A un certo momento non era più abbastanza capiente e hanno deciso di costruirne una nuova sull’area del vecchio cimitero che era stato abbandonato e chiuso. Ho avuto fra le mani i documenti sia del cimitero, sia della costruzione della chiesa, sia dell’ingrandimento di Porta Romana, perché allora c’era gente che scriveva, e mì legevi e copiavi».

Tra le sue passioni ci sono anche il dialetto milanese e le poesie…

«Sì, il dialetto lo parlavamo in casa ma mi sono messo a studiarlo con libri e vocabolari. Ho iniziato a scrivere delle poesie in dialetto milanese per raccontare storie, avvenimenti miei e di famiglia o per fare gli auguri agli amici, le ho numerate e raccolte in più volumi. Ho anche recitato in dialetto e mi sono divertito molto».

Matteo Marucco

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